Eppure, la Storia serve: serve a comprendere il presente e a progettare il futuro, sia a livello individuale che come popolo
A cosa serve studiare la Storia? A cosa serve conoscerla? Una domanda simile sarebbe stata inconcepibile prima dello sciagurato trentennio berluscamericano, che ha propugnato l’ignoranza come unico vero obiettivo politico e sociale da conseguire da parte delle Istituzioni.
Eppure, la Storia serve: serve a comprendere il presente e a progettare il futuro, sia a livello individuale che come popolo. È una stupidaggine anglosassone quella che recita che bisogna liberarsi della tradizione, del passato, della memoria, per vivere intensamente il “divertimento” presente, senza attenzione al resto dell’umanità, tesi solo al raggiungimento del soddisfacimento dei propri sfizi e vizi. Siamo diventati una società basata sui vizi e sul lusso inutile! Quale sfizio manca in questa città che non produce sulla, se non sterco? Nessuna lezione del passato ci può più sfiorare: si vive come pecore, sempre alla ricerca di nuova erba da brucare, senza una meta e senza un progetto. Direbbe Bartali che è tutto sbagliato, che è tutto da rifare …
In questa disfatta epocale dell’Umanità, ci si trova a combattere con armi sempre più spuntate, ma, alle volte, la forza della Storia riesce a sorprenderci e a innescare alcune considerazioni. Lo spunto ci viene dalla bella serata in Piazza con Pino Aprile, che ha utilizzato la Storia nell’unico senso possibile: per farci reagire di fronte a una invasione che ha reso le regioni del mezzogiorno d’Italia delle vere e proprie colonie di quelle del fantomatico Nord. Il significato dell’operazione tentata da Aprile è chiarissimo: se non apriremo gli occhi, se non prenderemo coscienza della nostra Storia, delle nostre risorse e delle nostre potenzialità, mai potremo iniziare quel processo di riscatto e di liberazione della sudditanza psicologica ed economica che i barbari vincitori ci hanno imposto.
Guardo alla nostra Reggio e mi accorgo che, invece, viene stupidamente dato credito a quelli che chiamo icasticamente “storici dell’Ottocento”, rifacendomi in particolare a un personaggio de “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello: don Ippolito di Colimbetra, principe di Pelagonia. Nel romanzo, il principe era l’unico ad avere denaro e preparazione culturale per creare occupazione e benessere nella sua Agrigento, ma egli si dilettava seco stesso nel ricostruire il tracciato delle mura di Akragas. Si tratta della Storia a uso e consumo dei “signori”, che, invece del Burraco e del Bridge, si dedicavano (e si dedicano) allo studio storico sganciato da qualunque attinenza con il presente; una specie di Storia fantasy, come Il Signore degli Anelli.
Ne abbiamo, cari amici, di storici alla don Ippolito nella nostra Reggio: solitamente si tratta di persone che non hanno mai sostenuto un esame di storia o di archeologia all’Università. Storici autoproclamati, che servono solo a rendere sterile la Storia: se uno di loro dice che “proprio qui, vicino qua, un po’ più in là” si trova il tempio di Apollo, e poi quel tempio non è effettivamente dove il sedicente storico ha affermato con tutta la sua gonfia saccenteria, ecco che tutta la forza degli studi e della ricerca storico-archeologica va a farsi strabenedire. Professionalità dei tecnici distrutta dalle stramberie di affabulatori senza alcuna preparazione specifica …
Intendiamoci: padroni questi storici fai-da-te di studiare ciò che vogliono e di strologare su qualunque cosa, ma, almeno, che la città stia attenta e si metta in guardia. Nessuno di noi andrebbe a farsi visitare da un avvocato quando si frattura una tibia: perché ascoltiamo questi ciarlatani? Nessuno di noi si farebbe progettare la casa da un avvocato o si farebbe difendere in tribunale da un ingegnere: perché non seppelliamo questi tromboni sotto una coltre di pernacchie?
Misteri di Reggio, dell’immortale Reggio, della autolesionista Reggio: “riggitani, riggitaneddi storti / istu a Roma pir circari cunsigghiu, / quandu a Riggiu vu putiva dari puru brigghiu”.
Eu prattein!