“Suppongo che a un certo punto, nella mia vita, avrei potuto narrare un gran numero di storie, ma ora non ve ne sono altre. Questa è l’unica storia che riuscirò mai a raccontare”.
Già dal prologo si intuisce la potenza dell’inquieto io narrante di Dio di illusioni (titolo originale The secret history), il primo romanzo della strabiliante e imprevedibile scrittrice Donna Tartt. Donna Tartt è nata e cresciuta nel Mississippi e non è affatto un caso che io stia scrivendo queste note mentre nel piatto del mio Thorens gira un album di Robert Johnson, suo illustre corregionale.
Il romanzo, a cui Tartt lavorava dal 1986 (quando, ancora ventiduenne, studiava all’università di Bennington ed era amica di Bret Easton Ellis, famosissimo autore di American Psycho), venne pubblicato nel 1992 e in pochi mesi divenne un bestseller internazionale, un grande caso editoriale che rese la sua giovanissima autrice una celebrità assoluta della letteratura americana contemporanea; all’epoca, come ha scritto Newsweek, “i critici gareggiavano per trovare il maggior numero di superlativi”.
Il romanzo uscì in Italia nello stesso anno ad opera della mia beneamata Rizzoli che, però, inciampò nell’italico male che vuole l’assegnazione di titoli italiani idioti a capolavori della letteratura stranieri. Una storia segreta sarebbe stato un titolo impeccabile, ma per i cervelloni di via Rizzoli la traduzione letterale risultava troppo agevole e si inventarono questo ampolloso e fuorviante Dio di Illusioni.
Il protagonista del romanzo è Richard Papen, un ragazzo povero e complicato, cresciuto in una polverosa cittadina della provincia californiana, il cui unico eldorado sono gli sfavillanti centri commerciali. Richard, desideroso di lasciare la sua incasinata famiglia al più presto, si iscrive nell’appartato Hampden College del Vermont dove, per puro caso, si ritrova a far parte della classe più esclusiva dell’università, quella di greco antico, insieme ad un gruppo di soli cinque studenti ricchi, viziati, decadenti, dediti tanto agli studi quanto agli eccessi e devoti al loro ammaliante professore, Julian Morrow (“…avevo a volte la sensazione che la sua principale preoccupazione fosse più l’eleganza del gesto che il sentimento in sé”). La caduta di Richard nella rete del prof è inevitabile, “perché, se la mente moderna è capricciosa e digressiva, la mente classica è mirata, risoluta, inesorabile”. Ha ansia di entrare a far parte del gruppo di studiosi classici: “In quello sciame di sigarette e cupa sofisticazione, apparivano qua e là come figure di un’allegoria, o gli invitati, morti da tempo, di una festa in giardino di epoche passate”. Più indifferenti che diffidenti, i giovani accolgono Richard nel gruppo con snobistica indolenza: “Quella improvvisa attenzione mi confondeva; come se i personaggi di un quadro molto ammirato, assorti nelle loro occupazioni, si fossero voltati a guardare fuori della tela per parlarmi”.
Gli studenti di Morrow “se incarnavano in parte l’esito delle sue cure, spiccavano abbastanza e, pur diversi tra loro com’erano, condividevano una certa freddezza, un crudele, manierato fascino non del mondo moderno, spirante bensì uno strano, gelido fiato proveniente da quello antico: erano creature magnifiche; quegli occhi, quelle mani, il loro aspetto… sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat”. Julian li esorta “a lasciare il mondo fenomenico per entrare in quello sublime” a liberarsi, come insegnava Platone, dal peso dell’io. Richard ci mette poco a integrarsi e a condividere la vita di questo gruppo che procede immersa nella fascinazione dei miti classici in una fase di costante stupore alcolico, alla ricerca della follia iniziatica, sempre di platoniana memoria, e dell’estasi dionisiaca; ma la loro dimensione costituisce solo una realtà parallela, l’incantesimo nel quale placidamente fluttuano verrà presto spezzato dall’esplosione della tragedia. La potenza narrativa della Tartt è tale dal rendere tremendamente plausibile la scelta di sopprimere Bunny, l’unico tra gli allievi di Julian che non esitava a manifestare insofferenza per i progressivi gradi di trasformazione metafisica del team; l’assassinio a sangue freddo di Bunny viene ridotto da Henry, leader del gruppo, a “una ridistribuzione di materia”. Scrittrice versatile, la Tartt infarcisce le oltre seicento pagine del romanzo di mirabili descrizioni naturalistiche, di acute digressioni psicologiche e di opportune incursioni nei testi classici. “Mentre tornavamo verso la macchina aveva cominciato a nevicare, ma già da prima il bosco, come contratto sotto il cielo, pareva attendere in silenzio tutto il gelo che avrebbe dovuto sopportare durante la nottata”.
Il romanzo, capace come un thriller di lasciare con il fiato sospeso, nonostante che i nomi di vittima e assassino si trovino in bella mostra nelle prime righe del prologo, ha venduto un milione di copie solo in America ed è stato tradotto in 23 lingue. Un simile successo avrebbe indotto chiunque a darsi da fare per cavalcare l’onda e produrre al più presto un nuovo lavoro, anche a costo di lasciare un po’ di qualità per strada, non è stato così per Donna Tartt. L’autrice è rimasta silenziosa per ben dieci anni, fino alla pubblicazione del suo secondo atteso romanzo: The little friend, che, per fortuna, ha mantenuto in Italia il titolo originale Il piccolo amico, appunto. Ma di questo parleremo nella seconda parte.
Donna Tartt, Dio di illusioni, Rizzoli 1992, pagg. 630, € 15,00