I bambini dell’epoca riscoprirono la bellezza struggente della favola italiana
Nel 1971 Luigi Comencini, uno dei massimi esponenti della Commedia all’italiana, decise di cimentarsi nella libera trasposizione di uno dei capolavori della letteratura per ragazzi di ogni tempo, il “Pinocchio” di Collodi, fiaba celebre in tutto il mondo, già rappresentata diverse volte sugli schermi, anche sotto forma di lungometraggio animato da Walt Disney nel 1940.
Per la realizzazione di questo progetto ambizioso, il regista si avvalse di un cast tecnico di prim’ordine: Suso Cecchi D’Amico, con la quale stese la sceneggiatura, il Premio Oscar Pietro Gherardi per i costumi, il fido Armando Iannuzzi alla fotografia ed il candidato all’Oscar Arrigo Breschi per la scenografia.
Ma la scelta più azzeccata fu quella di ingaggiare per la colonna sonora della miniserie Fiorenzo Carpi che compose una delle opere musicali più belle di tutta la Storia della Televisione Italiana: malinconica, dolce, struggente ed all’occasione briosa.
Comencini non si risparmiò nemmeno nella scelta del cast artistico, scritturando alcuni dei massimi esponenti della commedia all’italiana: Nino Manfredi (Geppetto), Gina Lollobrigida (Fata Turchina), Vittorio De Sica (Giudice), Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Il Gatto e la volpe) impreziosendo il cast con la presenza di Lionel Stander (Mangiafoco) e Jaques Herlin (medico).
La scelta del protagonista si rivelò un po’ più complicata, perché il regista cercava un bimbetto dall’accento toscano, con aria e sguardo furbetti: dopo diversi provini Comencini riuscì a trovare un perfetto “bischero”: Andrea Balestri rappresentava probabilmente ciò che Collodi voleva se il burattino avesse avuto sembianze umane, perché fu proprio quella la principale variante della trama che Comencini e la D’Amico applicarono: il pischello a cui sarebbe dovuto crescere il naso qualora avesse detto una bugia in realtà veniva rappresentato come un bimbo in carne ed ossa: questa fu una scelta praticamente obbligata, visto che nei primi anni ’70 non si fruiva di tecnologia adeguata per effetti speciali così elaborati per riuscire a far muovere in scioltezza e far parlare un burattino di legno: solo in alcune occasioni Pinocchio ritornava burattino, come nell’incontro con Mangiafoco o con la Fata Turchina. .
La poesia era servita: la bravura di Manfredi, anche nell’inflessione dialettale toscana, era impressionante, la dolcezza di un’intrigante Fata Turchina/Lollobrigida coinvolgente, la birbanteria del Gatto e della Volpe indisponente e divertente.
“Le avventure di Pinocchio” rappresenta a tutti gli effetti una delle massime espressioni artistiche della televisione italiana, con uno sforzo produttivo quasi senza eguali, impreziosito da una lirica dolcissima e struggente:
“Com’è triste un uomo solo che si guarda nello specchio
ogni giorno un po’ più vecchio e non sa con chi parlare
passa giorno dopo giorno senza avere senza dare
quando il sole va a dormire ed il cielo si fa scuro
resta solo una candela ed un’ombra sopra il muro.
Per non essere più solo mi son fatto un burattino
per avere l’illusione d’esser padre di un bambino
che mi tenga compagnia senza darmi grattacapi
che non usi la bugia come pane quotidiano
e che adesso che son vecchio possa darmi anche una mano”.
Un grande successo di pubblico accolse l’uscita dello “sceneggiato”. Vennero pubblicati album di figurine, dischi, gadget. I bambini dell’epoca riscoprirono la bellezza struggente della favola italiana, e i cinquantenni di oggi ripensano, con malinconia soffusa, a quanto di vero c’era in quella storia, esemplare, drammatica, realisticamente magica.
Proprio come la vita.