Sittin’ on the dock of the bay, watching my time go away. Per la serie: “Ci sono cose che vissute da soli non è lo stesso!”
Di lui si sapeva che non si era voluto sposare. Ma proprio nel senso che arrivati in prossimità della data fatidica, divorato dai dubbi sulle conseguenze di una tale scelta esistenziale, aveva comunicato alla fidanzata che non ci sarebbe stato nessun matrimonio. Né la settimana dopo, né mai.
Lei non la prese benissimo, con il vestito già comprato, ma la rabbia le svaporò in un brivido di sollievo al pensiero di non essere rimasta ad aspettarlo inutilmente sull’altare.
Nemmeno i genitori la presero benissimo: più di cento persone ormai invitate alla cerimonia con relativa caparra già versata al ristorante.
Di questa storia il mitico ragioniere, ché di lui stiamo parlando, non fece mai il benché minimo accenno nei successivi trenta e passa anni di amicizia e frequentazione assidua.
Se richiesto del perché non avesse mai inteso di prendere moglie rispondeva come Sordi: “Era pacciu! Mettermi un’estranea in casa?!?”
Un’altra leggenda metropolitana narrava che non si fosse mai separato dai suoi amati baffi. In realtà, come ebbe a raccontare lui stesso una sera che la birra aveva prodotto un certo livello di rilassatezza, quando aveva poco più di vent’anni, lima di qua, aggiusta di là, finì che i baffi gli rimasero nel rasoio.
Non uscì di casa per una settimana, fino a che l’accenno di peluria ricresciuta non fu sufficiente a malcelare la sua vergognosa nudità.
Il mitico ragioniere aveva una nutrita collezione di LP di musica rock, blues, soul, nonché tutto TEX, in pacchi incellofanati ai quali non poteva accedere nessuno, fosse stato anche il suo migliore amico.
Le pile di LP e di fumetti troneggiavano in una sala di casa sua nel Gran Ducato dove sua madre, padrona assoluta di tutti gli altri ambienti, poteva entrare solo per spolverare le reliquie e per riassettargli il letto.
Non si è mai avuta notizia, a memoria d’uomo, di un suo scatto d’ira per un qualunque motivo e tuttavia dopo averlo conosciuto appena un po’ di più che non fosse la superficie non mi sarei affatto sorpreso di sapere di una legnata ben assestata allo sventato che avesse osato toccare uno di quei dischi o manomettere uno di quegli albi.
Come minimo gli avrebbe tolto il saluto, che per lui era una punizione pure peggiore.
Forse era stato per questo che aveva deciso di rompere la promessa di matrimonio. Temeva che la ragazza, una volta che fosse diventata moglie, lo avrebbe costretto a sbarazzarsi di tutte quelle cianfrusaglie.
«Ti piace Otis Redding?» sparò, a bruciapelo, una sera.
Mi sembrava di averlo sentito nominare, questo sì. Ma non avevo la più pallida idea di chi fosse e cosa facesse costui nella vita.
Per me poteva essere, indifferentemente, un giocatore di baseball, il secondo uomo sulla Luna, il capo della CIA, uno scrittore di gialli, l’amico fesso di Dean Martin.
Chiunque.
«Così così.» dissi, cercando di capire dove si andasse a parare.
«Siediti e ascolta, alcolico!» ribatté, ridendo.
Riconosceva le cazzate lontano un miglio, dalla puzza diceva, e “alcolico” era il suo modo, bonario, di dire “vedi che a me non la fai, demente, non mi prendi per il culo”.
Prese il 45 giri dalla cima di una pila incastrata su un piano di un mobiletto piuttosto agé e, dopo averlo passato con un panno per togliergli l’immaginaria polvere, lo mise sul piatto.
«Non è strano? Ha cantato cose bellissime per un pezzo e non se lo è filato nessuno. Poi, muore a 26 anni e la sua ultima canzone, pubblicata postuma, spacca. Milioni di copie vendute in pochissimo tempo. Ci sarà una morale in tutto questo.» disse come riflettendo tra sé e sé, a voce alta, niente affatto persuaso dai tortuosi percorsi che la vita, a volte, si ostina a intraprendere.
Fu così che una lontanissima sera del secolo scorso diventammo amici, io e il mitico, per il tramite di una leggenda del soul.