Giorno verrà che risuonerà il detto “Sciumara mi ti leva”! Per la serie: “La terra è la sola cosa al mondo che valga perché è la sola cosa al mondo che rimane!” (cit. dal film «Via col vento»)
Ciascuno è legato alla propria terra, posto che lo sia, in un modo tutto suo. Un legame originale, irripetibile.
Nel mio caso questa simbiosi è fisica più che ideale. Quasi carnale, mi verrebbe da dire.
Della Calabria io amo (più o meno) tutto.
L’innata ospitalità della mia gente (spesso abusata, vedi cronaca recente) che, in fondo, ci deriva dal fatto di essere figli di una commistione di popoli (bruzi, normanni, latini, greci, bizantini, saraceni e chi più ne ha più ne citi), consapevolezza che ci porta a percepire l’altro come un simile piuttosto che come un nemico.
La bellezza aspra e caparbia dei luoghi unita alla mitezza del clima, la suggestione onirica che ci infligge l’onnipresente abbraccio del mare, romanticamente assiso alle nostre coste.
Ciò che si può trovare solo qui in alcuni lembi di questa regione, per esempio il regale bergamotto, che testimonia come appartenere a questa terra sia un privilegio del quale menare orgogliosamente vanto.
E ancora, la terra indurita e secca per il sole sferzante, le distese di ulivi, i filari di fichi d’india ispidi e tentatori, i cori allegri di grilli e cicale nelle controre assolate o nelle sere mitigate dal terraneo.
Soprattutto, amo le fiumare.
In questo autentico miracolo della natura scorgo, neanche tanto velata, l’intima essenza di un popolo.
Le fiumare calabresi, erroneamente catalogate come fiumi non compiuti, sono in realtà una sublime sintesi di bellezza e potenza, esattamente come il gene che ci scorre in corpo.
Sinuose distese bianche di pietre millenarie, spesso smisurate (penso alle fiumare in area grecanica), incuneate come ferite tra irti versanti di vegetazione selvatica, percorse perlopiù da rigagnoli d’acqua vorticosa e trasparente, che d’estate spariscono del tutto in una secca lunga come un respiro trattenuto, pronte tuttavia al momento propizio (per esse, s’intende) a trasformarsi in ruggenti corsi d’acqua gonfi della pioggia montanara, che riempiono di cupa violenza l’intero alveo, precipitando verso la costa e il mare con cieca furia distruttrice.
Ditemi voi se non c’è dentro lo spirito dei calabresi i quali si fanno gabbare, mal considerare, persino deridere, presi in giro dai furbetti di turno, salvo poi conservare in un angolo remoto della coscienza collettiva la capacità di sollevarsi e rammentare a chiunque, anche con durezza, l’irreparabilità delle offese eventualmente subite.
Proprio per questo non tollero lo scempio che una parte dei miei conterranei ha perpetrato e continua indisturbata a perpetrare in danno di questi capolavori naturali.
L’elenco è lungo, a cominciare dall’asportazione incontrollata di pietrisco per costruzioni, tra l’altro una delle probabili concause dell’erosione costiera per ridotto afflusso di detriti utili al ripascimento delle spiagge, passando per il deposito selvaggio di rifiuti di ogni genere con una particolare predilezione per carcasse di auto, lavatrici e servizi igienici appena sostituiti, per finire con la drastica riduzione dell’alveo e la sua cementificazione che, in occasione di piene, crea le condizioni per amplificare esponenzialmente la potenza devastatrice di tali fenomeni.
Se è vero, com’è vero, che la terra è l’unica cosa che conti perché rimane per le generazioni future, beh… allora speriamo di non doverci vergognare per quello che stiamo facendo alla nostra regione.