C’è un momento, è quell’attimo prima che le luci si spengano, in cui pensi alla confusione che hai lasciato fuori e raccogli le braccia e le gambe cercando di trovare una posizione che accolga tutto quello che sta per arrivare.
Qualche sera fa ero a teatro con una mia amica. Era la prima volta che assistevo a uno spettacolo di Ascanio Celestini; lo conoscevo già, certo, ma non lo avevo mai visto dal vivo.
Ero uscita di casa con uno strano peso in fondo alla gola, non avevo cenato, e non avevo pensieri che mi opprimessero, non quella sera. Corpo e spirito erano predisposti a godere di uno spettacolo che prometteva bene, a giudicare da quello che già sapevo di Celestini. Avevo acquistato il biglietto con largo anticipo, ero impaziente.
Il teatro, a differenza della televisione, riesce sempre a creare una vicinanza con le storie e i personaggi, una vicinanza che li fa sembrare reali, quasi più della realtà vera, perché il teatro è una lente d’ingrandimento che si sofferma sulle cose, persino quelle invisibili, è un pezzo di realtà vista al microscopio, messa lì per dare a chi la osserva il tempo di conoscerla o riconoscerla, fino anche a toccarla.
Ero seduta su una poltroncina stretta e scomoda e mi guardavo intorno: c’è un momento, è quell’attimo prima che le luci si spengano, in cui pensi alla confusione che hai lasciato fuori e raccogli le braccia e le gambe cercando di trovare una posizione che accolga tutto quello che sta per arrivare. Insieme alle luci, si spengono anche le voci e pensi che se il mondo fosse così, sarebbe una specie di bolla di vetro dove scende sempre la neve.
Sulla scena c’è solo una tenda bianca, dietro la quale si intravedono due figure umane e un televisore. La tenda si apre e quelle figure hanno anche un volto: uno è Ascanio Celestini e l’altro è Gianluca Casadei, uno che non parla, ma suona, fa la colonna sonora vivente.
Un mondo inizia a prendere forma attraverso le parole e le note, la musica va al ritmo delle frasi recitate a memoria, ora è più lenta ora è più veloce. C’è una voce che si rivolge un po’ al pubblico in sala, un po’ a Pietro, uno qualsiasi, uno di noi. Quella tenda che si apre è una finestra sull’esterno e subito sembra di vedere la pioggia, la strada e le due donne del palazzo di fronte. Madre e figlia, una donna vecchia che è sempre più vecchia e una donna giovane che è sempre meno giovane. Il suo nome è Violetta e fa la cassiera in un supermercato, immagina di essere una regina e il suo regno è lì, dietro una cassa, e lei si sente fortunata. Non quando torna a casa, però, dove il suo regno svanisce e resta solo l’odore della zuppa liofilizzata di sua madre, che le chiede com’è andata ma sono domande vuote, senza il calore della curiosità. La voce racconta e ogni cosa sembra materializzarsi davanti a noi, è una specie di Dio che trasforma in carne il verbo. Le cose vengono nominate e descritte, e quel mondo man mano si popola di anime semplici, persone alle quali non riusciamo a dare un volto, perché potrebbero essere chiunque, tanti nessuno che diventano qualcuno, per il semplice fatto che all’improvviso ci si accorge di loro. Il narratore le indica con il suo dito magico e ce le mostra, ci invita a guardarle attentamente, ad aprire gli occhi sulle cose di tutti i giorni, che distrattamente ci sfuggono perché non riteniamo importanti. E così, lo sguardo di chi osserva da quella finestra diventa il nostro.
Questo che significa? Se ci mettiamo a spiare, vuol dire che siamo dei guardoni?
Qual è la differenza tra un guardone e un poeta? Il primo osserva, il secondo immagina.
Ma chi guarda e racconta da quella finestra, ci tiene a essere chiaro fin dall’inizio: Pietro, io non so niente di lei, ma se vuoi ti racconto tutto.
Non è forse quello che fanno gli scrittori, immaginare ciò che non si sa? Perché non è tanto importante sapere, ma prestare attenzione, essere curiosi. Immaginare le storie che girano intorno a noi, quelle della gente comune. E cosa importa se poi non corrispondono alla verità.
In questo mondo spiato c’è Domenica, la barbona che vive nel gabbiotto di un supermercato, che campa con il cibo in scadenza che le viene offerto, e c’è Said, il suo fidanzato magrebino, vittima del videopoker, che perde sempre ma, se vincesse, comprerebbe a Domenica una bicicletta, anzi due, anzi tre, le dice ci penso io, te la regalo io. E la tiene come un bicchiere di cristallo su un vassoio d’argento, anzi no, d’oro, e torna da lei, sempre senza un soldo, e le dice che la ama e lei ci crede, e perché ci crede? Perché è vero. E questa verità è disarmante, come lo sono tutte le cose che pensiamo difficili e invece sono semplici.
E c’è un’ex prostituta che accoglie nel suo bar tutta questa umanità ed è lì che le vite di tutti si incrociano, e quel baretto di periferia diventa un piccolo mondo. Ma in questa storia di gente semplice, che cammina per le strade bagnate di pioggia dove sembra di vedere il fiato nella notte, ci sono anche i fantasmi, piccoli fantasmi tascabili, che qualcuno porta con sé e nasconde nelle tasche delle giacche, come monetine, pochi spiccioli che la vita gli ha reso indietro, l’unica cosa che spesso rimane di un passato felice.
Ed è in quel momento, proprio mentre Ascanio Celestini fruga nelle tasche alla ricerca di uno di quei fantasmi, che tu, nonna, forse stai già iniziando a morire. E io ho come la sensazione che qualcosa, lì fuori, mi stia aspettando, inizio a sentirmi inquieta, sto guardando uno spettacolo che parla di vivi e morti e di morti che vivono nelle tasche dei vivi ed è come se intanto mi stessi perdendo qualcosa.
Lo capirò domani, nonnina, che mi stavo perdendo l’ultimo pezzo di tempo da passare con te.
E intanto Ascanio Celestini continua a puntare il suo dito magico per indicarci il punto in cui guardare, illumina le cose e ci invita a riflettere sul significato della vita e della morte. Cos’è che ci fa morire? Non è il tempo, non è la vecchiaia. È l’indifferenza. È così per tutte quelle persone che vivono sul bordo delle strade, nello sgabuzzino di un supermercato o rinchiuse in una stanza, immerse nell’odore di una zuppa liofilizzata. Persone come Domenica, che una mattina di sole decide di tagliarsi le vene pensando di farla finita e invece si risveglia in ospedale perché la sua vicina, che era andata a riscuotere l’affitto e a lasciarle un budino, l’ha salvata in tempo. Ma Domenica, che dovrebbe essere felice, non lo è, perché lei aveva deciso di andarsene in una giornata di sole e invece si ritrova ancora in giro per le strade, senza un soldo, in una giornata di pioggia, allora va al mercato e prende un gambo di sedano e continua a girovagare senza sapere dove andare, vorrebbe fermarsi ma piove e allora entra nel bar di quella periferia di città, una città qualunque, in un giorno qualunque, e la proprietaria le dice vieni che oggi offro io, e Domenica dice no, perché lei non chiede l’elemosina, ma l’altra insiste e così prende un cappuccino decaffeinato. Ringrazia ed esce, e fuori ancora piove e nella sua mano dondola la busta col sedano. Ed è così che Domenica, a un certo punto, muore, mentre tutti restano a guardare, e non hanno il coraggio di avvicinarsi a quella barbona perché è sporca, forse è malata. Domenica resta lì a terra mentre la pioggia continua a caderle addosso e non avrebbe mai immaginato di dover morire con in bocca il sapore anonimo di un cappuccino decaffeinato. A saperlo avrebbe preso altro. Lei che aveva deciso di morire in un giorno di sole, a casa sua. E adesso è lì, ma cosa ne sa la gente di chi era lei? Cosa ne sanno gli altri del dolore, del tentato suicidio, del suo amore per Said? Gli altri non sanno mai niente, eppure giudicano e si sentono superiori e per loro Domenica è solo una barbona sporca.
Domenica va via così, come il sole di un giorno qualunque.
E quella sera che pensavo sarebbe stata una sera qualunque anche per me, invece è l’ultima sera in cui sei in questo mondo, nonnina. E c’era qualcosa, quel peso in fondo alla gola, che era un presagio. E mentre sono lì a fare i complimenti ad Ascanio Celestini e a dirgli grazie per aver rappresentato da solo un’umanità intera e avermi fatto capire che non tutte le cose belle sono difficili, e bisognerebbe accettarle semplicemente perché sono vere, mi si apre davanti agli occhi una finestra, solo mia. Ma stavolta non vedo nulla, sento. È una voce che mi arriva da dietro, così reale che mi giro per cercarla in mezzo alla gente che si muove disordinata nel teatro. Quella voce è la tua, nonnina mia. Mi dici bell’i nonna, quando vieni a trovarmi? Il tempo di tornare a casa, fuori piove, proprio come nella storia di Celestini; ed è la stessa pioggia, quella evocata dagli Indiani d’America, attraverso le loro danze tribali, che scende dal cielo e in quel passaggio che fa porta qui sulla terra i fantasmi delle persone care, i fantasmi tascabili.
Se potessi, ora, puntare il mio dito magico, come fa Ascanio Celestini per illuminare un angolino di mondo, racconterei la tua storia, nonnina, perché l’unica vita che abbiamo davanti agli occhi è quella passata, è quella l’unica vita che vediamo. E allora la racconterò, nonnina mia. Ma non adesso, non qui.