"Il mistero che avvolge i capolavori scultorei dell'arte greca."
Pelle di bronzo a ricoprire corpi perfetti in cui il sangue continua a pulsare. Occhi sintonizzati su frequenze lontane, fessure su un mondo straordinario.
I Bronzi di Riace se ne stanno in posa, con quell'atteggiamento carico di naturalezza e potenza, nella loro casa, il Museo Archeologico di Reggio Calabria, circondati da un alone di mistero che non accenna a diradarsi.
Dalla data del loro ritrovamento sul fondale del Mar Ionio ad oggi, ne sono state dette tante sia sulla datazione che sugli autori.
Si sa che quelle che sono considerate tra le testimonianze più preziose e significative dell'arte greca classica provenivano da Argo, nel Peloponneso, come ha dimostrato l’esame delle terre di fusione eseguito dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma.
Da qui l'ipotesi che i Bronzi facessero parte di un gruppo di statue posto ad Argo e ricollegabile al mito dei Sette contro Tebe, narrato da molti scrittori e quest'anno proposto a Siracusa nell'ambito del cinquantatreesimo ciclo di spettacoli classici che prevede nel programma, oltre alla tragedia di Eschilo, anche le Fenicie di Euripide e Le Rane di Aristofane.
Non faccio che pensare a loro, ai miei Bronzi, mentre la tragedia sta per cominciare, seduta fra pietre millenarie, ulivi che sembrano mezzi addormentati e una luna che fa capolino al di là degli attori.
Presto però capisco che Tideo e Anfiarao, (questi due erano forse i nomi dei Bronzi), non compariranno mai sulla scena. Sia loro che gli altri guerrieri citati nel titolo dell'opera rimarranno sempre sullo sfondo come ombre pronte a sovrastarci.
Questo perché la tragedia è incentrata sulla descrizione delle emozioni e delle sensazioni degli abitanti di Tebe. Tesa a insegnarci l'essenziale, cerca di descrivere ciò che non si vede in base al principio per cui l'azione risiede nel logos.
C'è un grande albero totem al centro della scena, attorno a cui si riuniscono le donne, guidate da Antigone, a pregare. L'esercito nemico è alle porte e il frastuono dei loro scudi preannuncia sofferenze e sventura.
"Non si può sfuggire a un dolore voluto dagli dei" dice ad un certo punto Eteocle ad Antigone che lo supplica di non lottare contro il fratello Polinice. E in questa frase c'è la consapevolezza che a volte le cose vanno come devono andare ma anche tanta, troppa rassegnazione.
Negli appunti di regia si legge: "Tebe è come Sarajevo ieri, come Aleppo oggi", a sottolineare come la guerra continui ad essere un tema di grande attualità.
Nella scena finale l'antica agorà diventa un tappeto di corpi. Corpi che richiamano alla mente tutti i caduti nelle guerre che oggi attanagliano il pianeta. Corpi che assomigliano a tutti quelli degli sventurati che annegano per sfuggire a traumi e atrocità.
Al termine della rappresentazione, se i due Bronzi siano Tideo e Anfiarao, non mi è dato saperlo. Il vero mistero è sempre stato un altro.
Il perché gli uomini nel mondo non abbiano smesso di farsi la guerra.