"Questa è la storia di mio marito Roberto e di Mario"
“Patients unknowing vegetative state”. Pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza, i cosiddetti “invisibili”.
Si stima che in Italia siano indicativamente 3000.
Questa è la storia di mio marito Roberto e di Mario, nato a Torino.
Sono le 12.00 e si può salire in reparto. Apro la porta che fa accedere alle scale, vengo colpita dal forte odore di disinfettante misto a odori organici. Man mano che salgo, l’olezzo si intensifica e ho l’impressione che si appiccichi alla pelle ed ai vestiti, stagnando dentro le narici. Entro in stanza con una morsa allo stomaco che mi attanaglia l’animo. “Buongiorno”, dico per educazione, pur sapendo che nessuno risponderà. Mi accosto a Roberto e sento di non riconoscere più in quell’involucro vuoto l’uomo che conosco con cui ho condiviso amore, litigi e risate. Il suo corpo si è rimpicciolito e il viso è invecchiato; il suo sguardo, prima acuto ed intelligente, adesso è vacuo. Tiene gli occhi per lo più chiusi e solo a volte li apre con un lieve movimento oculare.
“Archimede”, così veniva chiamato dai colleghi, perché sempre pronto a risolvere i problemi e a dare un contributo all’azienda. Non apro bocca, perché quello che ci diciamo io e lui, avviene per empatia: 25 anni insieme non sono “briscolette”. Gli parlo di Sara e Aurora, dei loro progressi da studentesse; gli dico che a casa è tutto sotto controllo e lui, nei tipici movimenti da persona sconnessa dal mondo, mi risponde col pensiero. Vedo Mario che cerca di vedermi con la coda dell’occhio. Sì, perché non può girare la testa; in verità non può fare nulla se non ruotare il polso sinistro che anche io uso per comunicare con lui. Lo saluto, alzando la voce come si fa con gli stranieri che non capiscono la nostra lingua; chissà perché, poi: pensiamo forse che alzando il tono della voce riescano per magia a tradurre quel che gli si dice? Gli chiedo di ruotare il polso se mi ha riconosciuto e Mario lo ruota, segno che il collegamento è avvenuto. Sono in difficoltà perché istintivamente mi viene da chiedere “come va?”. È una domanda idiota e allora penso velocemente e dico: “Mah non so ‘sti torinesi sanno mangiare solo polenta, cosa sanno loro di un bel piatto di maccheroni con la carne di capra!”. Lui dischiude la bocca a rallentatore in quello che vorrebbe essere un sorriso. Rimane con quella espressione per qualche istante, poi la connessione si interrompe ed io non posso che tirare un sospiro di sollievo perché sulle mie guance già scorrono lacrime silenziose. La mia morsa allo stomaco aumenta. Forse la rabbia e la voglia di gridare in quel momento aumentano di intensità ma le reprimo, come ho ben imparato a fare in questi 9 mesi.
Mi accosto di nuovo a Roberto, gli prendo la mano ormai irrigidita, cerco di infilare la mia nella sua, gliela accarezzo. Entra un’infermiera e mi saluta, ma quando nota il mio viso rigato dalle lacrime, subito la sua espressione cambia divenendo pensierosa, cercando di immaginare la tempesta che ho dentro.
Nella testa ho un affollamento di pensieri; inseguo quello in cui considero il fatto che, i pazienti come Mario, hanno una connessione di breve durata con la realtà, alternando intervalli di tempo, più o meno brevi, di sonno e di veglia. Ringrazio Dio che i momenti di sonno sono molto lunghi e frequenti. Non posso accettare che un essere umano sia inchiodato in un letto, chiuso in gabbia, in un corpo che non risponde più. Si tratta di un piccolo sollievo per la mia psiche, che è sempre e duramente messa alla prova durante l’ora di visita. Quando dai corridoi annunciano che la visita è terminata, prendo le mie cose, saluto empaticamente Roberto, guardo Mario e, notando che ha gli occhi aperti, lo saluto e gli chiedo di ruotare il polso per ricambiare ed egli esegue. Esco dalla stanza con lo stomaco che chiede pietà e, solo una volta fuori della clinica, respiro a pieni polmoni, mi asciugo il viso e mi avvio alla stazione per tornare a casa.
Durante le 3 ore e mezzo di viaggio, scruto con la mente gli occhi degli altri pendolari, che sento come miei compagni, come ignari passeggeri di quello stesso treno che è la vita. E solo allora torno alla realtà e mi accorgo che la vita va avanti e, come un treno mai in ritardo né in anticipo, non si ferma per nessuno.