Addento il primo morso, guardo il mare e penso ai nostri amici che nuotano felici
Quanta poesia dietro quel capolavoro che è “La pesca del pesce spada” di Annunziato Vitrioli. Potrebbe indurre noi sognatori a pensare che questa pesca, che era un duello ad armi pari tra un uomo, con una fiocina e una barca, e un pesce, con una pinna e una spada, sia ancora la realtà, ma oggi i remi sono stati sostituiti dai rombanti 500 cavalli e difficilmente il prode “spadaccino” avrà scampo, distratto poi com’è dal rituale del corteggiamento cui si sta dedicando. Si, perché il nostro amico marino, che il resto dell’anno se ne sta beato a sguazzare negli abissi, appena avverte l’arrivo della primavera, viene ad amoreggiare in superficie e qui, spesso prima di aver deposto le uova o aver fecondato quelle già depositate, e con il benestare del Ministero delle Politiche Agricole (che ne vieta la pesca solo da gennaio a marzo), viene catturato.
Parecchio triste la stagione degli amori del pesce spada: mentre i fidanzatini marini, che vedrete nuotare quasi sempre in coppia, amoreggiano, sulla passerella (caratteristica imbarcazione creata per questa caccia), l’avvistatore, appollaiato sull’alto pennone, avverte il fiocinatore, piazzato sulla tipica passerella posta a prua, e questo vibra il colpo fatale alla femmina e il maschio, innamorato, continua a seguire la sua bella e così, spesso, lo stesso mortale destino toccherà anche a lui.
E questa, signori miei, è la forma di pesca più etica che ci sia, ammesso che una lotta ad armi impari possa mai considerarsi etica. È ormai da un po’ di tempo che l’uomo ha perso il rispetto delle grandi creature marine e del sacrificio della loro vita, fino a qualche decennio fa, la loro cattura, che avrebbe consentito ad un piccolo villaggio di sfamarsi, era omaggiata con festeggiamenti quasi rituali, ma a quella sacralità si è sostituita la brama di denaro e si è arrivati ad usare spadare e ferrettare: reti derivanti (che stanno a galla e sono trasportate dalle correnti) che si stendono per chilometri e intrappolano nella loro impietosa trama creature delle più disparate specie marine: delfini, balene e quant’altro possiate immaginare di trovare nella vostra mente o sui banchi delle pescherie. E seppur messe al bando da qualche anno, a poco sono serviti decreti e servizi giornalistici in Tv o sui giornali e di certo non hanno fermato questi avidi corsari. Adesso la legge gli consente l’uso di palamitare (reti derivanti dalle dimensioni minori) che, poste vicine, diventano una trappola letale quanto le illegali spadare.
Se questo non bastasse ad impedire ai nostri figli di sapere che sapore avesse il pesce spada, per assicurarci che proprio tutto il pesce pescabile sia pescato, ci accorrono in aiuto i palangari derivanti (detti anche palamiti): immaginate una lenza molto lunga, a questa sono attaccate tante lenze più piccole, tutte dotate di ami.
Ora voi immaginerete che questa tecnica non etica, né equa, né giusta sia illegale, e invece no, non fino a duecento ami almeno, di più la legge cattivona non consente.
Potete immaginare quale varietà di fauna ittica e di tartarughe vi resti impigliata. Poi ci si lamenta che nel Mediterraneo non ci sia più pesce (qui, secondo l’ICCAT, il pesce spada è diminuito del 70% negli ultimi trent’anni) e a lamentarsi sono gli stessi che questo mare lo depredano.
E tutta questa ingordigia per cosa? Lo spada, fateci caso, non ha un gusto spettacolare o carni di particolare pregio, però è pratico, questo si: una bistecca di mare, senza spine, pronta a farsi arrostire. E il sapore? Aggiungete dieci cucchiaiate di salmoriglio e sarà gustosissimo: olio, limone, sale e prezzemolo renderebbero buono il tofu, figuriamoci il nostro spadaccino affettato! A chi importa poi se contiene più piombo e mercurio che vitamine ed omega 3, con soli 20 euro al chilo avrete messo la cena in tavola e posto fine alla storia d’amore dei nostri amanti spadaccini.
La pesca del pesce spada sembra essere tradizione del nostro Stretto e del nostro sud da tempo immemore, ma quello era un altro mare e quella era un’altra pesca. E poi la tradizione, quando non va più bene, la si può sempre innovare.
La maggior parte del gusto sta nel condimento, fateci caso, e se l’ha imparato anche la mia mamma calabrese che, dopo il naturale shock derivante dal sentirmi dire “non mangio più carne”, ha imparato a fare il ragù di seitan, penso che potremo dilettarci anche noi a preparare un “finto pesce spada alla siciliana”.
Versiamo un filo d’olio in una padella, vi facciamo soffriggere uno spicchio d’aglio affettato a lamelle e aggiungiamo due pomodori tagliati a cubetti, che i più pazienti si saranno premurati di privare di semi e buccia. Una volta rosolati, vi uniamo qualche acciuga, tre o quattro possono bastare, una generosa manciata di olive tagliate a rondelle e un pugnetto di capperi, dissalati ovvio, ma questo voi cucinieri provetti lo sapete già. Salate, pepate, lasciate cuocere. Ed ecco che entra in scena il nostro ingrediente green, non criticatelo prima di averlo assaggiato: prendete un panetto di tofu, io preferisco quello affumicato, e tagliatelo a fette spesse, arrostitelo in una padella unta con poco olio un paio di minuti per lato, quindi trasferitelo nel nostro invitante intingolo, che starà ormai sfrigolando, continuate la cottura ancora per cinque minuti e poi servite.
Addento il primo morso, guardo il mare e penso ai nostri amici che nuotano felici. Nessuna spadara all’orizzonte.