Esiste da qualche tempo in Calabria un dibattito che verte sull’alternativa partenza-restanza o, meglio, sulle opportunità che quel dualismo, o uno dei suoi elementi, avrebbe prodotto al livello politico e culturale nella nostra regione.
I fautori del partire considerano indispensabile l’emigrazione perché, oltre a soddisfare le loro elementari esigenze economiche, mette in contatto l’emigrante con nuovi mondi, con nuove lingue, con nuove culture dalla cui ricchezza resta escluso chi rimane a vivacchiare nei borghi di origine.
La «restanza» (che già esisteva nel lessico patrio dei secoli scorsi come «rimanenza» economica, resto o parte invenduta di un carico di merci) qui assume il nuovo significato di «sforzo di sopravvivere nella terra di origine senza perdere la dignità, senza scendere a compromessi con una società ove le leve di ogni potere sono in mano ad una classe dirigente meschina, inetta ed autoreferenziale quando non collusa con le associazioni criminali».
Entrambe le scelte sono legittimate dalla cultura popolare:
chi parte segue antichi proverbi che recitano: «megghiu na vota a russicari chi centu voti a ngiallinire», ove già la differenza cromatica tra il rosso di chi parte (colore della lotta, del conflitto per l’esistenza) fa aggio sul giallo che è colore mediano, sfuocato, livoroso; la raccomandazione è dunque di scegliere il corno del dilemma che risulta più difficile da percorrere pur di non sottomettersi a padroni e padroncini di tutte le risme, a quelli che pretendono il servilismo poi compensato «in deficit» con i favoritismi politici e amministrativi.
1b. «Undi non poi campari non ti vergognari a fùiri», non aver vergogna di scappare da dove non puoi vivere.
2) «megghiu a la casa tua pani e cipuddha / c’a casa d’atri carni di viteddha»: un distico di due perfetti endecasillabi che potrebbe diventare il manifesto di ogni fautore della «restanza», preferisco mangiare pane e cipolla in casa mia (Calabria) che in casa d’altri (nei luoghi di emigrazione) carne di vitella. C’è nel proverbio l’orgoglio per le proprie origini (pane e cipolla, il cibo dei braccianti e degli sfruttati del Mezzogiorno lungo tutta la loro storia) e la sfida per il «mondo altro» che ti può dar da mangiare i cibi prelibati (carne di vitella) ma ti sottrae agli affetti, al sole del «natìo loco», ti estranea da esso e ti fa vivere alienato.
Il libro di Saverio Orlando, La scogliera di levante, ha a che fare con tutta questa problematica, a partire dalla personalità dell’autore: ingegnere elettronico in aziende di telecomunicazioni fuori dalla Calabria eppure molto presente a Melito Porto Salvo, dove è nato ed è vissuto fino alla maturità classica; dopo il pensionamento si spartisce tra il Lazio, dove vivono i figli, e la Calabria ove si spende in consulenze gratuite per amministratori e nella presenza nei Consigli di amministrazione dell’università Mediterranea di Reggio Calabria e della startup Digiadvisors (risvolto della quarta di copertina).
La scogliera di levante del titolo ci porta in medias res: qui un giornalista di non lontane origini bruzie, vive e lavora a Torino ed ha scelto casualmente la Calabria meridionale come meta di una vacanza estiva, si incontra con un bidone portato dalla marea e che lo condurrà, auspice e suggeritore un anziano marinaio del luogo dal «soprannome parlante» (Sucarrinu), ad un traffico di rifiuti tossici sepolti in mare a qualche chilometro dalla spiaggia.
L’indagine, che dura le poche settimane della vacanza di Giancarlo Beltrami (tale è il nome del giornalista protagonista), si dipana tra un’avventura amorosa «durata lo spazio della vacanza», l’amarcord di un giornalista locale con il vizietto dell’archiviazione dilettantistica (tanto utile alla fabula del romanzo), la ricostruzione di una vicenda criminale in cui era sparito di lupara bianca un giovane ed innovatore sindaco del paese, la visita ad un magistrato in pensione con il cruccio di non aver sempre fatto le indagini a modo:
«Molti delinquenti furono tolti dalla circolazione ma dieci innocenti, dieci galantuomini che non avevano alcuna responsabilità ebbero la vita rovinata dalla mia iniziativa. Non avevo approfondito abbastanza. Mi ero fidato di riscontri che poi si rivelarono infondati. C’era pure qualche caso di omonimia». (p. 141).
Il lettore scoprirà come gli avi del protagonista furono vittime del nuovo corso criminale innescato a Chorìo (il nome del paese marino dove è ambientato il racconto appartiene a frazioni montane di comuni dell’area grecanica e proviene dalla toponomastica greca: χώρα, contrada, regione, paese, χωρίον, diminutivo di χώρα) dall’innesto della speculazione metropolitana («una grande società milanese aveva presentato un progetto preliminare per costruire lungo tutto il litorale alberghi, villette, villaggi turistici» p. 94) sulla primitiva e ruspante criminalità paesana.
E risalta, nella ricostruzione dell’autore, il male più consolidato che colpisce la stragrande maggioranza degli abitanti di Chorìo di fronte allo scempio urbanistico: «Un male che si chiama rassegnazione che colpisce i più e che li porta ad accettare la sopraffazione del prepotente di turno e l’indifferenza della comunità cui li hanno convinti di appartenere ma che li ignora da sempre, tranne quando ne ha bisogno per alimentare e sostenere i suoi interessi» (p. 152)
Meritano di essere segnalate la scrittura semplice e lineare («la semplicità che è difficile a farsi» avrebbe detto Brecht), la padronanza lessicale, la naturalezza dei dialoghi: insomma un romanzo olimpico ed apollineo.
Ne ha bisogno la letteratura contemporanea, specialmente calabra, alla ricerca spasmodica di qualche lettore residuale e caricata di troppe stranezze oltre che di replicate, granguignolesche e pornografiche macellerie criminali mutuate dal cinema horror.