LA RECENSIONE. Storie delle sette fiumare di Francesco Tripodi, Amazon

LA RECENSIONE. Storie delle sette fiumare di Francesco Tripodi, Amazon

Reghnumi in greco antico significa spezzare, da questo termine deriva Reghion, il nome che i Calcidesi dell’Eubea vollero dare alla colonia da essi fondata nel 730 a. C., l’attuale Reggio Calabria, il cui territorio è segnato, spezzato da sette corsi d’acqua, che oggi chiamiamo scjumare.

In “Storie delle sette fiumare” del reggino Francesco Tripodi leggiamo memorie e racconti di vita delle popolazioni che da sempre vivono accanto agli alvei di questi fiumi dal corso breve, tipici del meridione d’Italia, asciutti in estate e in autunno-inverno alimentati dalle acque piovane talvolta tanto intense da provocare piene paurose e straripamenti disastrosi. Le fiumare dispensano da sempre gioie e dolori: con le loro acque dissetano orti di povera gente e irrigano fondi agricoli coltivati prevalentemente ad agrumi, fonte del benessere di tante famiglie piccolo borghesi, quando straripano provocano danni immensi a case e campi coltivati ed anche morti. Molti anziani hanno ben impresse nella memoria le alluvioni del 1951 e del 1953 e le loro conseguenze. 

“Decisi di mettermi in cammino nel greto della fiumara, osservare le tracce del paesaggio, bussare porta a porta vincendo la diffidenza degli anziani, ascoltare racconti, parole sottovoce, leggende, chiacchiere, dicerie, parole di ‘ntichi chi non sbagghiunu mai”, dice l’autore che, da ogni chiacchierata  e dalle lunghe camminate alla ricerca di una sorgente o di ruderi  capaci di narrare  storie a chi sa interpretare il loro linguaggio muto, ha appreso tante notizie utili per scrivere i racconti e le memorie contenuti nel suo libro. Le fiumare oggi hanno perso tanta dell’antica bellezza, violentate dall’incuria dell’uomo che non le custodisce come dovrebbe, deturpate dal cemento, invase da rifiuti di ogni genere e vegetazione spontanea mai domata.

Nelle pagine di “Storie delle sette fiumare” troviamo la vita di un passato non molto remoto, i lavori di uomini donne e bambini che popolavano le sponde delle fiumare. Leggiamo di Micu, adolescente che non ha mai frequentato la scuola perché, come molti altri non ha i soldi per comprare i libri e lavora nelle terre du gnuri, di tanti figghi i nuddu destinati per nascita a spezzarsi la schiena nei fondi dei vari possidenti e costretti a mendicare un quarto d’ora di acqua irrigua per il loro piccolo orticello ritagliato ai bordi del corso d’acqua, mentre per i facoltosi proprietari terrieri l’acqua da ‘Nopia non scarseggia mai. Leggiamo anche di norie, identiche a quelle inventate in Mesopotamia quattromila anni fa che, azionate dalla forza di pazienti animali pungolati spesso da un bambino, permettevano di colmare le gebbie di acqua che attraverso un sistema di canali irrigava le purtuallare dell’agro di Fontanelle e Manganaru.

 Due racconti ci fanno rivivere il rito della lavorazione du porcu che si celebrava in gennaio. Occasione per radunare intorno alla caddara grandi e piccoli e procurare alle famiglie che potevano permettersi di allevare uno o due maiali una scorta di cibo per un anno. 

“Cu si marita è cuntentu ‘nu jornu, cu’ mmazza ‘u porcu è cuntentu n’annu” così recita un detto che ci fa capire quanto fosse importante per le genti delle nostre contrade avere la dispensa ben fornita. Persone che conoscevano gli effetti delle ristrettezze e del bisogno arrivavano ad anteporre la soddisfazione di un bisogno primario persino agli affetti familiari.

Tripodi. che conosce e studia la storia del territorio reggino, nel suo volume ci racconta anche dello sviluppo economico dell’area intorno alle fiumare e a tutto lo stretto. “Ma quei traffici e quelle ricchezze avevano origine da idee nate da persone straniere”.

Nel XIX secolo le arance calabresi arrivavano fino in America e alla tavola degli zar. Essenza di bergamotto, acido citrico, citrato di calcio dalle piccole fabbriche in riva allo stretto giungevano nelle farmacie del nord dell’Europa, nelle industrie tessili inglesi, presso i profumieri francesi. Agli inizi del ‘900, dopo l’immane sciagura del terremoto del 1908, tanti imprenditori stranieri scelsero di investire altrove e il commercio nell’area dello stretto crollò. In California e Florida si impiantarono agrumeti, l’acido citrico si produsse in laboratorio e i nostri agrumi furono declassati a frutti da succo. Tante bibite dissetanti sono ancora oggi prodotte coi succhi provenienti dai nostri territori, ma sulle etichette non lo si dice. Ruderi di fabbriche in disuso testimoniano quel breve periodo prosperità.

L’autore non tralascia di farci conoscere le gelsominaie di Brancaleone e le raccoglitrici di olive della piana di Gioia Tauro, le tessitrici di pregiati tessuti con la seta prodotta in loco, le ricamatrici, le contadine. Donne che hanno dato un contributo notevole all’economia reggina.

Ogni pagina di questo libro testimonia il legame profondo dell’autore coi luoghi in cui è nato, il suo amore per una terra provata da disastri naturali come terremoti e alluvioni, ma anche offesa e oltraggiata dai suoi stessi figli, quelli che appiccano incendi, quelli che cementificano a casaccio, quelli che seminano i loro rifiuti lungo i bordi delle strade o nelle fiumare o nei boschi.

I tanti termini dialettali presenti sono di facile comprensione per i reggini. Una legenda o delle note a fondo pagina aiuterebbero i lettori di altre città e regioni.

Non c’è nostalgia del passato o desiderio che esso ritorni in questo libro, c’è il desiderio di conservare i ricordi perché possano diventare stimolo per realizzare nel presente le speranze disilluse dei nostri nonni

FRANCESCO TRIPODI, Storie delle sette fiumare,  Amazon, pag. 182, euro 18.