Il volume è organizzato in nove parti. La prima è la riproposizione del saggio belfagoriano. Dopo l’introduzione da lui definita “semiseria” ma comunque gustosissima sulla odierna produzione letteraria ‘ndranghetologica, Tripodi analizza le opere di Strati del ciclo che definisce Terrarossa, “romanzi che hanno per oggetto esclusivo o predominante quello della ‘ndrangheta che sono (assieme a Tibi e Tascia e a Noi lazzaroni) le più riuscite. Ciò non solo perché la materia è stata e rimane in sé più attraente degli altri argomenti assunti dallo scrittore ma anche perché le opere ‘ndranghetologiche non vennero per nulla, o vennero solo per poco, contaminate dalle stimmate autobiografiche dell’autore; egli infatti, fortemente ostile alla associazione criminale calabrese, in quei romanzi poco gabellò della sua biografia”.
La seconda parte riassume quelle che Tripodi giudica le opere migliori di Strati narratore, Tibi e Tascia, Il nodo, Gente in viaggio, Noi lazzaroni. La terza parte si occupa dei due romanzi che, assieme a Il nodo, rappresentano in modo diretto momenti autobiografici dello scrittore: Il codardo ed È il nostro turno. Nella quarta parte Tripodi si occupa dei romanzi pubblicati sul finire degli anni Settanta e per tutto il decennio successivo, che giudica decisamente involuti sul piano della tessitura testuale e del lessico (Il visionario e il ciabattino; I cari parenti; La conca degli aranci; L’uomo in fondo al pozzo). La quinta e sesta parte contengono le riflessioni più critiche sulla produzione stratiana, sia su Melina, serie di racconti pubblicati fuori dalla casa madre Mondadori, sia su Tutta una vita, romanzo postumo uscito nel 2021. L’ultima parte (VII, VIII e IX) si occupa dell’intrecciarsi di lingua e dialetto nelle opere di Strati.
Cos’è la Calabria nella produzione stratiana è la domanda che chiunque si sia misurato con le sue opere è costretto immediatamente a farsi. E a questa domanda non sfugge Tripodi. Una Patria, certo, non come realtà geografica ma come focolaio d’affezioni costituito da ciò che procura grandi piaceri e grandi, immensi dolori. Strati è lo scrittore di un dentro e di un fuori della vita sociale calabrese: un dentro dei suoi pesanti condizionamenti e un fuori di fughe verso altre frontiere a volte realizzate solo con la mente. “La fedeltà alla Calabria - scrive Tripodi - ha fatto sì che nella produzione letteraria di Strati i maggiori filoni vengano mutuati dai problemi secolari della regione, spesso intrecciati tra di loro in una spirale che dà in ogni romanzo aria alla narrazione.” Così la ripugnanza stratiana per le offese ai tanti ”dimenticati” calabresi, quasi sempre ad opera di altri conterranei, non emerge come livore politico, ma come idea d’una situazione dove comunque si affrontano energie contrastanti in un combattimento che ancora oggi non è terminato.
E qui Tripodi segnala quello che per lui è “il problema fondamentale della narrativa stratiana successiva a Il nodo che consiste nel fatto che quel filone intimistico ed introspettivo rintracciato da alcuni critici in questo romanzo non ha prodotto nulla di rilevante; anzi, è stato il filone che ne ha accompagnato la caduta stilistica e il tramonto complessivo della sua letteratura; e se questa fase critica di Strati non è esplosa a ridosso degli anni Settanta lo si deve a Noi lazzaroni e a due romanzi ‘ndranghetologici, Il selvaggio di Santa Venere e Il diavolaro. In questi libri lo scrittore ha abbandonato la prospettiva che comincia ad emergere ne Il nodo per tornare alla bella letteratura descrittiva e realistica delle sue opere migliori.”
Di particolare interesse mi è apparsa l’ultima parte del saggio, lì dove Tripodi, sorretto dalle sue capacità glottologiche, affronta il nodo del rapporto tra lingua e dialetto in Strati individuando nello scrittore un chiaro pregiudizio antidialettale che ha nuociuto alle sue opere, come segnalato anche da due grandi critici come Walter Pedullà e Geno Pampaloni. Tripodi si rammarica per quello che considera una occasione persa segnalando “il costume stratiano di tradurre in italiano parole dialettali e di come, nella versione dello standard, si perdano molte connotazioni del dialetto… lo scrittore traduce perché non si fida della parola dialettale e della resa semantica nel
contesto della sua pagina.”
Peccato! Perché il miracolo di sonorità raggiunto da Giuseppe Occhiato in Oga Magoga con i toni e
l’informalità della lingua calabrese che ne dimostra la ricchezza della resa letteraria avrebbero forse reso
ancora più belle alcune fra le sue indimenticabili pagine.
Claudio Cavaliere