Restanza. In contrapposizione alla partenza, all’abbandono della propria terra, spesso per necessità, talvolta per scelta. Verso luoghi più propizi, verso possibilità di lavoro. E pertanto verso dignità e libertà. Con competenze, titoli di studio, che saranno investiti lontano, a vantaggio di società ed economie locali distanti.
Restanza è un sostantivo che il Vocabolario Treccani associa, anche, agli studi antropologici del Professore Vito Teti, ai suoi racconti sui “rimasti”. Restanza è parola densa di significato, legato a “la gente che afferma una restanza come stile di vita, come la propria forma dell’abitare, come atto politico, come resistenza ai fenomeni di devastazione dei luoghi, come possibilità per rigenerarli…” (Vito Teti, La restanza, Einaudi 2022).
Difficile da afferrare nella mia città, che vede mese dopo mese, anno dopo anno, partire un’intera generazione, le cui capacità vanno a sostenere aziende, scuole, ospedali, servizi del centro e del nord dell’Italia, e dei paesi più prosperi dell’Unione Europea. Si migra, si ha facoltà di migrare verso ciò che è più attrattivo, si lascia una terra tra le più povere dell’Europa occidentale.
Alcuni giorni fa, in luoghi al limite settentrionale della mia regione, dove si intrecciano bellezza e tradizione, ho visto la restanza. L’ho vista nei giovani che si occupano di un parco agricolo di montagna, tra splendide cime, a due passi dall’autostrada del Mediterraneo, via maestra di tante partenze e pochi ritorni. L’ho sentita nei loro racconti, nella narrazione di una sfida vinta, che ha generato interesse e benessere. Nella realtà di una piccola comunità che attira curiosità, ben ripagata. Ho visto la restanza nel sorriso di un giovane che guida un fuoristrada, percorrendo lo stesso itinerario più volte al giorno, consentendo anche ai più pigri di gioire di luoghi di grande fascino. I suoi luoghi, quelli in cui è nato e che certamente ama. Ho visto la restanza nei volti di giovani donne che promuovono i prodotti di quelle terre, impegnate, con orgoglio di appartenenza, in una scommessa tanto difficile quanto coraggiosa.
E ho visto la restanza nell’ospitalità di chi ha trasformato vecchi edifici in case di ospitalità per viaggiatori curiosi come me. Ho visto la restanza e i suoi effetti virtuosi, la cura e la manutenzione di paesi duramente provati dall’emigrazione dei decenni passati, la capacità di creare interesse con proposte concrete. Si tratta di microrealtà, di una serie di punti sulla carta geografica, in contrapposizione alla macroscopica realtà dello spopolamento della regione, soprattutto delle sue aree interne. E la somma di queste microrealtà, oltre ad avere un significato economico, acquisisce dignità sociale e antropologica. E così descrive e aiuta a comprendere la restanza. Che è atto coraggioso, direi di sfida, in una terra dove prospera un’organizzazione criminale potente, pervasiva. Dove la qualità della vita è assai inferiore agli standard italiani ed europei. Dove i trasporti sono carenti. Dove le diseguaglianze sociali ed economiche generano una crisi del capitale biologico, sicché i calabresi vivono meno e ammalano di più rispetto ad un abitante del triveneto. Dove la rappresentanza politica sembra non avere chiare le priorità e assiste alla deriva senza fine. Dove tuttora servizi e diritti sociali sono del tutto insufficienti e spingono le giovani generazioni a partire.
Qualche giorno dopo trovo conferma del mio pensiero. Incontro un caro amico che vive e insegna in un piccolo centro della presila catanzarese. C’è la restanza e ci sono i paesi, mi dice. Ovvero non è facile restare e fare i conti con una linea ferroviaria interrotta da tempo, con distanze che possono essere colmate solo se si dispone di un’automobile, con scuole lontane e un’assistenza sanitaria limitata. Tutti e due pensiamo a “Lento Pede”, un saggio recentemente pubblicato da Domenico Cersosimo e Sabina Licursi, un’indagine sul campo sulle aree marginalizzate della Calabria. E concordiamo sull’idea che restare sia un diritto. E che partire sia un’opzione non obbligata.
Chi resta deve poterlo fare. Chi resta prende una decisione autonoma e manifesta la sua distanza dal vittimismo duro a morire. Chi resta si rimbocca le maniche. E rivendica rispetto e diritti indiscutibili, che si chiamano tutela della salute, istruzione, mobilità. Attenzione della classe dirigente. Altrimenti partire con il solo biglietto d’andata diviene inevitabile.