L’estate secondo il calendario sta finendo, è vero, ma è difficile prevedere quanto durerà ancora alla luce dei cambiamenti climatici, dei mutamenti profondi e coinvolgenti che stanno colpendo l’intero pianeta e ovviamente anche noi. E da qui occorre partire per invertire rotta, correggere modello di sviluppo, rivedere modi di vita. Il passaggio alla montagna, ai centri non urbanizzati, alle aree interne è quindi immediato e pone molti interrogativi ma offre anche altrettante opportunità. La Sila quindi: aggredita massicciamente nelle giornate canicolari, tante, secondo modalità mordi e fuggi, al di fuori da ogni logica che contempli rispetto e consonanza con luoghi che prima di ogni altra cosa chiedono appunto rispetto. Invece assistiamo al riprodursi di riti culinari di massa in un pantagruelico fastfood per cui anche se parlare di gentrificazione potrebbe sembrare riduttivo almeno rende l’idea, io credo.
Capisco, almeno credo, e il ragionamento si fa ancora più complicato. Non vede il rischio, le chiedo, che ricorrere ai massimi sistemi, mi perdoni, potrebbe essere un modo per sfuggire dalle urgenze del momento, reali, e che attendono una soluzione? Problemi appunto come adeguatezza dell’offerta turistica, turismo a proposito come unica mission?, infrastrutture inadeguate, dotazione idrica, raccolta dei rifiuti e via discorrendo, li lasciamo sullo sfondo?
Tutt’altro, le rispondo, e rilancio. Tutto quanto appartiene e compete alla sfera dell’agire dell’uomo fa parte di una rete che è composta di rami e nodi, punti di partenza e obiettivi prefissati, strumenti, risorse, soggetti competenti all’interno di quello che un tempo si usava chiamare progetto. Senza il progetto c’è il riduzionismo, il frammentario, il particolare che rischia di offuscare il fondamentale. Fondamentale, per non dare l’impressione di sfuggire alle sue parole, che può racchiudersi in una frase: cosa ne facciamo della Sila. Con un obbligato corollario: la Sila di chi è? Nel duplice senso: qual è il soggetto politico amministrativo responsabile, che tipo di rapporto fra pubblico e privato, e la Sila è per pochi o per molti? Questioni mi rendo conto non di oggi ma ancor oggi irrisolte, non credo però irrisolvibili.
Vediamo allora in particolare la questione delle competenze, del ruolo dei diversi soggetti e istituti che insistono sui tanti aspetti della vita sull’Altipiano. C’è un problema idrico: a chi compete? Gli impianti di risalita come a Camigliatello sono chiusi: a chi rivolgersi per capire perché? I laghi, immensa e malsfruttata risorsa: come farle giocare un ruolo che altrove consente risultati sorprendenti; e il legno, nel polmone verde del Mediterraneo, è così che va utilizzato?
Posso rispondere no su tutta la linea, che non lo so, mi perdo in un labirinto inestricabile, che così non può durare? Non posso e non so rispondere solo con un no o cento no, ma poi mi rendo conto che al tavolo che doveva predisporre le proposte del PNRR, tanto per parlare del recente, di schemi idrici non si è parlato mentre da sempre ci si lamenta della rete colabrodo; che i carrelli o le cabine delle sciovie sono miseramente mancanti; che l’Assolegno reclama a viva voce una nuova e virtuosa politica per i boschi; che le concessioni per l’utilizzo delle acque dei nostri laghi potrebbero contenere condizioni ben diverse per la collettività; che addirittura l’accesso a sedi finanche nazionali di aree protette è sommerso di rifiuti con il solito gioco a rimpiattino tocca a te no tocca a te… Di fronte a tutto questo che posso dire e tantomeno fare?
Ancora una volta capisco, diciamo, e a proposito di aree protette, il Parco della Sila come lo colloca in questo panorama? Lei fu il primo firmatario del disegno di legge istitutivo, ricordavo all’inizio, non è che si è pentito come pure mi è parso di aver colto in qualche sua ultima esternazione?
Non solo fui il primo firmatario dell’atto legislativo ma lo portai fino in fondo, fino a che diventasse legge dello Stato, e ci volle l’unanimità di tutte le forze politiche, comprese quelle di opposizione perché il provvedimento venisse approvato, si era agli sgoccioli della legislatura, in Commissione Ambiente del Senato, che in via regolamentare può fungere da sede legislativa purché appunto il pronunciamento sia unanime. Ci credevo, rientrava nel mio programma elettorale, i parchi erano allora guardati da me e almeno da una parte della mia parte politica non come strumenti imbalsamatori della natura bensì come agenzie dello sviluppo sostenibile. Non musei per pochi o palcoscenici da contemplare, no: istituti che con il concorso e il confronto con cittadini, associazioni, ceti professionali e produttivi, amministrazioni e centri culturali contribuissero, si proponessero come motore per il decollo multisettoriale del territorio. In termini, è agli atti ed è scritto nella relazione illustrativa del disegno di legge, sostenibili, così come statuito alla Conferenza di Lisbona delle Nazioni Unite. Sono passati venticinque anni da allora, oggi non so di quale bilancio contabile disponga l’Ente Parco, quale la pianta organica, se regolamento e piano del Parco siano adottati, ne’, ed è quello che più conta, se i rappresentanti dei Comuni e delle Province i cui territori sono compresi nella superficie del Parco siano presenti e partecipano alla vita del Parco. Per non dire dell’aria che si respira in ambienti ministeriali su che cosa si vuole che sia un Parco. Pentito, mi chiedeva. Io certamente no, qualcun altro e più di uno dovrebbe, piuttosto.
Capisco, e sarei tentato di chiederle di approfondire ma mi rendo conto di avere approfittato abbastanza del suo tempo. Grazie e a una prossima occasione.
*Massimo Veltri, già senatore della Repubblica, è stato professore ordinario all’Unical.