A proposito del "Risveglio del drago" di Vito Teti pubblicato da Donzelli

A proposito del "Risveglio del drago" di Vito Teti pubblicato da Donzelli
Mentre si contano i danni dei violenti temporali, che da una settimana hanno devastato anche il territorio calabrese, a rammentarci quanto drammatica e quanto abbia pesato sulla vita di tante comunità locali la lotta dei calabresi contro una natura bella e violenta, è in libreria un bel libro di Vito Teti edito da Donzelli dal titolo “Il risveglio del drago”.

Al libro, che a distanza di 19 anni ripercorre la tragica vicenda di Cavallerizzo, il borgo arbresh di Cerzeto, il prestigioso supplemento del Corriere della Sera “La Lettura” dedica un servizio ben curato da Carlo Macrì, che assieme a Vito Teti, ritorna a Cavallerizzo per cogliere dal vivo gli stati d’animo della gente, di quelli che non hanno voluto abbandonare quello che rimane della furia distruttiva della frana abbattutasi su Cavallerizzo il 7 marzo 2005, per trasferirsi nella new town realizzata con il sogno illusorio di ricostruire il paese, lontano dal vecchio borgo.

Vito Teti afferma nel servizio che “In Calabria, la regione meridionale dove più diffuso e frequente il fenomeno dell’abbandono dei paesi, sia in epoca medievale sia in epoca moderna, insieme ai terremoti e forse anche più di essi, alluvioni e frane hanno costituito la principale causa dello spostamento degli abitanti. E’ in questa Calabria dell’instabilità, della mobilità, della precarietà, dei continui abbandoni e delle ininterrotte riparazioni e mai definitive ricostruzioni che va letta la vicenda di Cavallerizzo”. In cui si inserisce in modo struggente la poetica della “restanza” e “lo smarrimento attraverso i sogni tormentati degli abitanti e dei lontani che avevano lasciato il paese con la speranza di tornare a passarci la vecchiaia. E con la nuova certezza che ciò non avverrà mai.” E diventa quasi la “cronaca di una morte annunciata”.

Gli fa eco, riprendendo un pezzo del 2010, Gioacchino Criaco che, riferendosi proprio ai disastri delle ricorrenti alluvioni scrive: “ Questa è la nostra normalità, quale emergenza. Siamo figli delle alluvioni, nonostante gli anni passino siamo sempre li, al ‘non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. I torrenti hanno una voce assordante’, richiamando Corrado Alvaro. E poi, amaramente: “L’abbiamo abbandonata la nostra terra e ora a ogni scroscio di cielo ci diventa liquida sotto i piedi. Cosa volevamo, che gli alvei si pulissero da soli, i boschi si rigenerassero per partenogenesi, le frane si autosanassero…? O vogliamo che vengano da Roma a tapparci i buchi? Dove siamo quando ci costruiscono le strade, le ferrovie? Quando alluvioni di denaro finiscono nelle tasche solite? Giriamo il capo e riveriamo. Non gridiamo ora che l’Allaro, l’Ammendolea, la Verde e il Bonamico, l’Amato si arrabbiano. Più strilliamo e più soldi manderanno, a pioggia, ma sempre a
vantaggio di loro signori, che con le emergenze si assegna tutto in urgenza, senza regole, come ai tempi dei pagghiari. A noi resteranno le alluvioni e le case di frasche e fango di Alvaro.”

Affermazioni forti di due voci autorevoli della cultura calabrese, che aprono squarci drammatici, come solo la letteratura alta sa fare, sulla condizione ormai disperante di una regione che sembra essere sempre a metà strada di un percorso tormentato e contraddittorio tra identità e modernità, tra progresso e memoria. Tra deprecabili, fumosi e compromissori modelli di sviluppo imposti dai governi, dalla politica, dai gruppi di potere legali e criminali, che dagli anni 70 in poi hanno utilizzato le vecchie e nuove povertà, le mediocrità diffuse delle varie classi dirigenti, l’anemia mediterranea dei ceti imprenditoriali per creare sudditanza ed emarginazione. E non può certo sottacersi l’apatia civile delle élite intellettuali, salvo illuminate eccezioni, incapaci di riscoprire e attualizzare la “Calabria in idea”, lucidamente analizzata da Augusto Placanica, finalmente liberata da stereotipi e pregiudizi e da una cultura ‘ndranghetacentrica. Laddove sarebbe auspicabile una cultura della contemporaneità, capace di sconfiggere anche tutti i residui di false credenze, superstizioni e tradizioni parareligiose, che in alcuni paesi, molto spesso, hanno allontanato il percorso dell’ emancipazione e dell’apertura verso il nuovo e il progresso della scienza, favorendo ogni forma di violenza sulla natura e sul territorio.

Occorre, allora, aprire un dialogo franco e non preconcetto su questi temi, fra le istituzioni, la politica, i media, senza temere di essere accusati di appartenere al partito dei “rovinologi”. Perché oggi la partita non è tra i sostenitori della “restanza” o della “ tornanaza”, ma tra chi difende un’immagine di territorio, che il tempo inclemente e l’incuria degli uomini si è incaricata di stravolgere e chi, per la verità molto pochi, pensa ci sia ancora margine per fare uscire questa regione dal torpore della politica, dall’apatia della sua classe dirigente, dalla cappa del pregiudizio dei governi e dell’informazione padronale. Per costruire una Calabria normale, in cui restare o tornare sia una libera scelta e non un atto eroico. Un atto d’amore, ma anche un contributo collettivo per costruire finalmente il racconto di una comunità nuova, prima che un paese o un agglomerato urbano.