La recensione. L’obayifo di Rosarno di Marcello Borgese. GIOVINAZZO

La recensione. L’obayifo di Rosarno di Marcello Borgese. GIOVINAZZO

bf      di ROSANNA GIOVINAZZO - Una storia drammatica e di grande attualità, quella narrata da Marcello Borgese nel suo libro “L’obayifo di Rosarno”. L’argomento di fondo, che ingloba molti problemi del nostro tempo, dall’immigrazione alla miseria e al degrado, dallo sfruttamento alla violenza ed alla xenofobia, è infatti di scottante attualità e rientra in dibattimenti politici, sociali, decisamente complessi e di non facile soluzione.

E’ la storia del dramma tutto umano, ma vissuto in un mondo subumano, che vive Abeiku, incarnazione di una figura dell’estrema solitudine, per dirla con Ben Jellou, che così definisce la condizione ontologica dell’immigrato, ma che, in questo caso, va ancora oltre, perché il protagonista patisce pure sofferenze gravosissime fino alla morte violenta. Abeiku è un ragazzo ghanese che vive nello Slum Old Madama di Accra, vicino ad una discarica di rifiuti tecnologici, quelli di cui il mondo sviluppato deve disfarsi e che pensa bene di inviare nei paesi poveri, “spazzatura” del mondo, per un disegno diabolico ma fortemente miope, pensato e realizzato dalla stupidità umana. Solo, senza famiglia, vive per la strada, facendo lo scavenger, sorta di spazzino delle discariche che, con l’ausilio di calamite, cerca metallo, pezzi di rame, motori di hard disk, per poter ricavare quel minimo guadagno necessario alla sopravvivenza e, anche se occorreranno almeno altri quattro cinque anni di lavoro, per raccogliere la somma necessaria per il grande passo: fuggire da quell’inferno e raggiungere l’Europa. Dorme in una carcassa di freezer su un materasso fatto di cartoni -non era come stare in una baracca, non se lo sarebbe potuto permettere- ma, almeno, il ricovero lo avrebbe protetto dal freddo e dalla pioggia. Abeiku è soltanto un ragazzino e, anche se la durezza estrema della vita lo ha fortificato, nel sonno ha ancora paura dell’obayifo, creatura mitologica spaventosa, che emana fuoco dall’ano e che ruba lo spirito. Spauracchio, da sempre alimentato dagli anziani del suo villaggio, che lo perseguiterà per sempre.

Miseria, degrado assoluto, vapori velenosi provenienti dalla discarica, sono i compagni quotidiani di Abeiku, che vede morire il suo amico Opoku , soltanto uno dei tanti giovanissimi morti per i veleni che infestano l’aria. E quando Abeiku “avanza” nel suo ruolo lavorativo, come addetto ai fuochi e ai martelli, non più alle calamite, e guadagna di più, può comprarsi dei libri e dei quaderni per frequentare la scuola di un monaco francescano, può affittarsi un posto letto nella baracca di una prostituta e raccogliere la somma necessaria per il grande viaggio: traversata del deserto per arrivare in Libia e poi, da lì, la traversata in mare alla volta dell’Italia, assieme al suo amico e compagno di sventura, Haminu.

Il viaggio è terribile, la descrizione altrettanto, tale è il realismo, nudo e crudo che fuoriesce da ogni parola ed espressione: Ouagadougou, Niamey, Agadez, Bilma, Seguedine, Tajarhi, Al Gatrun, Sebha, tappe del viaggio, coacervi di degrado, miseria, guerriglie, interessi dei poteri economici mondiali come quelli che “…manovrano e brigano per guadagnare milioni di dollari con l’uranio…”, insomma rappresentazioni plastiche di un mondo subumano, dove si agitano figure, anch’esse subumane, che speculano sulle disgrazie dei propri fratelli, come i cockseur, organizzatori di questi viaggi da girone infernale, o i wasit, facilitatori ed intermediari. Finalmente Tripoli, da dove potrà imbarcarsi, dopo giorni di attesa in capannoni-lager, per l’Italia ma, ahimè, senza l’amico Haminu, morto perché colpito da un proiettile, durante il viaggio. Traversata da incubo, tanto che l’obayjfo compare, nel sonno di Abeiku, con le sue fiamme avvolgenti e terrificanti. Fame, disidratazione, furti, guerra tra poveri per la sopravvivenza, che può essere assicurata anche soltanto da qualche granello di zucchero. Ma chi l’ha rubato agli altri, muore, per un gesto omicida istintivo dell’ancestrale mors tua vita mea.

Dopo lo sbarco e peripezie varie che lo porteranno a Milano, Roma, Foggia, Abeiku arriva a Rosarno, facendo il periplo di quasi tutta la Calabria e passando per Capo Spartivento, dove finisce l’Europa e da dove, oltre il mare, c’è l’Africa, la sua Africa. A Rosarno “c’era qualcosa di africano…che ricordava le immagini di Mogadiscio o di Beirut…” anche la Cartiera, dove trova alloggio, gli ricorda la sua Africa: tetti sfondati, lamiere bruciacchiate, insomma degrado ma, almeno, può sperare in qualche forma di solidarietà dei volontari che aiutano i fratelli africani, e poi, al Quadrivio può sperare di essere ingaggiato da qualcuno per una giornata lavorativa tra gli agrumeti per la raccolta delle arance.

A Rosarno Abeiku conosce un anziano zingaro, Damiano Berlingeri, detto Ferrovecchio, evidentemente per il “lavoro” che svolge, che è proprio simile a quello di Abeiku quando, nello slum di Accra, faceva lo scavenger, rimestando tra i rifiuti. Lo zingaro è molto conosciuto dai derelitti di Rosarno ed è anche amico di “quella gente” pur se “…non aveva nulla da spartire con la ‘ndrangheta.” Tra i due scavenger è subito amicizia, che si rafforza quando Abeiku salverà Ferrovecchio, ridotto in fin di vita da un pestaggio violentissimo per una lite con due rumeni, che si erano impossessati del materiale che Ferrovecchio aveva raccolto nella fiumara. Ristabilitosi, anche grazie alle cure di Abeiku, Ferrovecchio lo “adotta” e lo fa vivere con lui nella sua baracca. Abeiku ha raggiunto una qualche forma di dignità di vita, ma un destino malvagio incombe su di lui. La rivolta di Rosarno -descritta, tra l’altro, nella sue mille pieghe e complessità interpretative- le violenze ed i disordini, lo costringono ad andare via e sarà proprio lo zingaro ad accompagnarlo alla stazione di Gioia Tauro, più “sicura” di quella di Rosarno, per prendere il treno alla volta di Roma. Non lo abbraccia, ma lo lascia proprio “come si lascia un bambino davanti al portone il primo giorno di scuola” dicendogli: “Va in qualunque direzione ti porti il vento. Ogni posto è buono per vivere e per morire.”

Alla stazione Termini, strapiena di miserabili senza tetto, rivede africani come lui, scacciati da Rosarno, tra cui Steve, suo compagno di capanna nella Cartiera. Prende la metropolitana e scende a Ponte Mammolo, non trova altro riparo per trascorrere la notte che ai piedi di un pilone di viadotto, ma il posto non è sicuro, così in seguito trova rifugio sotto una panchina in graniglia. La tappa ai lati con cartoni sagomati e foderati con sacchi di plastica, appronta un materasso di cartoni sotto, e il giaciglio è bello e pronto. Sempre meglio che sotto il pilone. Ma “lo scherzetto al nero” ordito da tre balordi di quel mondo degradato votato al male così “per divertisse un po’…nessun razzismo, giuro” sarà fatale per il povero Abeiku che morirà bruciato per il fuoco appiccato da Oreste, il più balordo dei tre, con una tanica di benzina, attorno alla panchina. Una torcia umana, un obayifo dal quale si sprigionano fiamme fosforescenti, che cerca di abbracciare Oreste per portarselo con sé nel regno dei morti. Abeiku non ci riesce e, spinto, cade a terra. Non si rialzerà più. Ma l’obayifo ricompare quando una luce fosforescente fuoriesce dalle ascelle e dall’ano della donna che partorì Oreste, bruciata viva dai sicari mandati da Damiano Berlingeri, che così realizzerà la sua vendetta per la morte disumana del suo amico-figlio Abeiku. Perché “…Non la può passare liscia. Lui, il figlio di zoccola (Oreste), è in galera ma la madre che lo ha cacato è a casa.”

Una storia drammatica, dicevamo, per i temi affrontati, la disperazione e la povertà, tanto grandi da spingere maree umane a fuggire, ad attraversare il deserto, a mettere a rischio la vita, affidandosi a gente senza scrupoli, e poi perché la storia si conclude con una morte assurda e disumana. Il tutto narrato con una scrittura semplice ed asciutta, senza domande, ma colma di riflessioni implicite, in grado di sollecitare costantemente il lettore. E proprio qui sta la sua potenza espressiva, integra e attuale: nel suo presentarsi come un libro che, trattando un tema della nostra storia così tragico e complesso, sa portarci in contatto con i misteri più raccapriccianti della natura umana, che sa essere solidale e fraterna, ma anche sorda, cieca e stupida.  

Marcello Borgese, L'Obayifo di Rosarno, Citta del Sole