La dodicesima stanza di Ezio Bosso e la sua musica che svela le nostre paure

La dodicesima stanza di Ezio Bosso e la sua musica che svela le nostre paure
ezio bosso    In quale stanza dell’anima è entrato, scardinando ogni resistenza, la musica di Ezio Bosso, ieri sera al Cilea? Il musicista torinese non solo incanta per la sua musica, ma stravolge tutti i canoni usuali della comunicazione a cui siamo abituati. E’ un testimone che smaschera le nostre più segrete paure e fragilità esponendo il suo corpo senza reticenze allo sguardo dello spettatore incredulo, mentre la sua comunicazione imperfetta rivela  la nostra invisibile imperfezione evitata e rimossa.

Il pubblico l’ha scoperto a Sanremo da breve tempo: per comprendere le sue parole serve attenzione, ma la sua musica sospinge ancora più in alto. La valenza terapeutica, non è l’usuale musicoterapia. Anche se di guarigione si tratta, va oltre e non riguarda solo l’artista. Guarigione dell’anima, se si è aperti all’ascolto, perché Bosso esprime al massimo le sue emozioni e il suo mondo interiore magico e straordinario.

"Perdersi seguendo", quando segue la musica, vince la Sla, vince il buio, la paura, le barriere, i pregiudizi. Il “miracolo” non è solo per sé, ed è qui la cosa straordinaria, il segno  esprime, raggiunge il  pubblico, che è liberato dalle sue paure e orientato in una dimensione altra, in un’esperienza che difficilmente si dimentica. “La musica che abbiamo condiviso….”, spesso ripete, per sottolineare il tipo di relazione che sente di realizzare. “Io non ho paura” è il titolo del film di Salvatores di cui ha composto la colonna sonora, legandolo per un certo periodo, suo malgrado, al ruolo riduttivo di autore di musiche cinematografiche. In realtà, aver addomesticato la paura, può dirsi il leit-motiv della sua vita. 

Nel 2011 Bosso ha subito un intervento al cervello che lo ha portato a vivere una «storia di buio». Poco dopo gli viene diagnosticata la malattia neurologica che oggi gli fa raggiunge il palcoscenico su una sedia a rotelle, anche se, ancora con un balzo acrobatico, salta leggero sullo sgabello davanti al pianoforte. “A un certo punto avevo perso tutto, il linguaggio, la musica: la ricordavo, ma non la capivo, racconta, Suonavo e piangevo, per mesi non sono riuscito a far nulla. La musica non faceva parte della mia vita, era lontana, non riuscivo ad afferrarla. Ho scoperto così che potevo farne a meno. E non è stato brutto. È stato diverso, è stata un’altra esperienza. Ho imparato che la musica è parte di me, ma non è me. Al massimo, io sono al servizio della musica”. 

La Sla è una malattia degenerativa che colpisce progressivamente i muscoli. Ma le dita, le mani, la braccia e il volto sono ancora pieni di vita e l’abisso che poteva risucchiarlo, invece, gli fa scoprire “che siamo belli. Noi esseri umani siamo bellissimi, ma spesso, chissà perché, tendiamo a dimenticarcene. Che non esistono storie brutte, ma solo tristi, o allegre. E che dobbiamo avere paura solo delle storie noiose. Ora parlo a fatica, non posso più correre, ma riesco ancora a suonare. E nel momento in cui metto le mani sulla tastiera volo lontano da ogni problema”.

Cosa sono i nostri piccoli malesseri quotidiani, le ansie sul futuro, il senso perduto dei nostri giorni trascorsi ad inseguire chissà che, spesso, ci portano a vivere un’esistenza diminuita? Se solo per un’ora vivessimo a mille come fa lui, cosa sarebbe la vita nostra e quella degli altri? Un dono condiviso in pienezza. Perché la musica e la presenza fisica di Ezio Bosso sono rivelatrici di quanto si viva o non si viva in pienezza. Lui poteva chiudersi nella stanza “troppo piccola per resisterci troppo grande da poter fuggire…”, e lì lasciarsi andare per quel tempo concesso da una diagnosi così infausta, ne avrebbe avuto tutti i diritti.

Invece i suoi giorni sono altro. E le 12 stanze, "The 12th Room" che è anche il titolo dell’album, le ha aperte tutte, porte, finestre, ci si entra dentro e nel profondo si è penetrati dalla pura energia che circola e ci raggiunge afferrandoci e costringendoci a fare i conti col mistero. La stanza dei maestri, Chopin, Bach, che di certo non usavano i cellulari come quelli che hanno continuato a farlo, nonostante tutto, segno che ci sono persone impermeabili alla bellezza, che preferiscono restarci nella loro noia.  La stanza della poesia, di cui Emily Dickinson è la musa ispiratrice, che “a 25 anni, ha scelto di non uscire più dalla sua stanza”, ma da questa raggiungeva l’intima essenza del mondo. Via via, fino all’ultima stanza, quella che, come un cerchio che perfettamente si chiude, si riunisce alla prima, quella della nascita.

“La  dodicesima stanza non è la fine, è quella che ti libera”.  Perché, racconta l’artista, “la vita è composta da dodici stanze. Sono le dodici in cui lasceremo qualcosa di noi, che ci ricorderanno. Dodici sono le stanze che ricorderemo quando passeremo l'ultima. Nessuno può ricordare la prima stanza perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo accada nell'ultima che raggiungeremo ". Lo dice e ci credi. E’ pura empatia, la sua musica, il piano accarezzato, che si anima, compagno e amico prezioso, insieme ad altro, inesprimibile e difficile per la mente, perché riguarda l’invisibile e il mistero.  Se si chiudono gli occhi, ogni suono si traduce in un’immagine o in un colore.  Ed è così per l’artista “allo stesso modo le immagini mi provocano suoni. La mia musica deriva dalla squadratura di un’immagine che diventa una cellula e poi si sviluppa e porta ad altre immagini, diventa una sequenza e questa sequenza alla fine diventa un brano. La musica è trascendente, costringe a uscire dal sé, ad andare oltre».