LA PAROLA e LA STORIA. Morti n. 2

LA PAROLA e LA STORIA. Morti n. 2
cresci1973 Cacùsciu cu no mori a lu so lettu, povero chi non muore nel suo letto, e Mbiatu cu mori a lu so’ lettu, beato chi muore nel suo letto, atteso che l’alternativa era morirne di emigrazione in altro paese o, addirittura, ammazzati. Donde l’usanza di riportare a casa, qualche giorno prima della morte, i malati terminali ospedalizzati.

L’aggettivo cacùsciu viene dal verbo greco kakòo, ricevo male, danno, rovina, sono maltrattato, ed esprime bene la condizione di chi, morendo in solitudine, ha sofferto o soffre molto; il diminutivo cacuscèddhu viene riferito, ad esempio, ad un bambino che deve guardare le pecore in inverno senza essere adeguatamente coperto. 

Il morto fa sconsari la casa, ne determina lo sconsamentu e la sua trasformazione temporanea e contestuale ai giorni d’u luttu; sinonimo di luttu è anche vìsitu perché si articola nelle visite al morto e ai dolenti (cioè ai prossimi del defunto) di parenti,  amici, vicini e conoscenti in genere.

Lo sconsamento era maggiore nelle case povere e unicellulari dei contadini dove veniva allestito u catalettu (con i trìspiti, cavalletti di ferro su cui poggiava anche il fondo dei letti normali) al centro della stanza e intorno si disponevano le sedie per i parenti che alternavano singhiozzi e sospiri silenti agli ‘alti lai’; anche i visitatori per  le condoglianze si sedevano per qualche tempo e poi lasciavano il posto ad altre persone.

Terribile la maledizione mi pari nsavanatu, che tu possa apparire con le savane intorno al corpo, o quella della madre ad un bambino che piange: e chi mi ti ciànginu ammenz’a a casa, nt’o catalettu, che ti possano piangere al centro della casa, o sul cataletto.

Per il pianto del morto le famiglie le famiglie borghesi, che non potevano scarmigliarsi per esigenze di etichetta, assoldavano persone che, piangendo al posto dei parenti come le prèfiche romane, cantavano anche le lodi del morto e le sue generosità; e ciò anche quando lo stesso era stato in vita poco lodevole e poco generoso.

Questa funzione di pianto rituale supplente veniva spesso svolta dalle bagnaròte, donne povere di Bagnara Calabra, che si accontentavamo di poveri ed evadevano l’incombenza con la stessa disinvoltura con cui compivano piccoli e tollerati intrallazzi sulle navi dello Stretto; da qui l’espressione nci vonnu i bagnaroti m’u ciànginu detta di qualcuno che è misero, quindi degno del pianto bagnaroto, o di qualcosa (un manico di arnese, un pezzo di muratura, un pavimento mal posato) che è fatta male e perciò inservibile e sulla quale c’è solo da piangere, e forte pure.

  

La  vestizione del morto, che bisogna fare prima che il cadavere si irrigidisca, ci conduce ad un verbo importante nsavanari, dal greco sàbanon, tessuto di lino, collegato all’ebraico safan; oggi poco usato, nel calabrese ante-televisivo manteneva sia il significato di ‘rivestire il morto’ che quello di avvolgere qualcosa con strisce di stoffa (sàvani) simile a quelle che ricoprivano le mummie dell’Antico Egitto.

Il riflessivo nsavanarsi indicava anche l’azione dell’inciampare in una corda mal custodita, in una radice, in un filo nascosto (mi nsavanài, si nsavanàu, ndi nsavanammu) o, più semplicemente, quello di cadere, di essere travolto da qualcosa: ttraversau la strata senza mi guarda e ju rrivandu na machina e lu savanàu (attraversò la strada senza guardare ed arrivò una macchina che lo travolse.    

Insavanato dunque il morto lo si disponeva sul cataletto avendo cura, la cosa doveva essere evitata nella normale collocazione del letto, che i suoi piedi fossero in direzione della porta, pronti all’uscita.

L’espressione di ccà mi ndi nesciu sulu ch’i pedi avanti rivelava l’intenzione di chi, ormai stanco per malattia o per vecchiaia di cure e della vita in genere, dichiarava che non avrebbe solo aspettato la morte; da qui anche la maledizione mi ti nèscinu ch’i pedi avanti, che tu possa uscire di casa solo per il funerale.     

Al luttu strittu erano obbligati gli intimi stretti del defunto che dovevano vestirsi di nero, l’astenersi dal cibo, dalle abluzioni, dal lavoro  per un periodo più o meno esteso; il coniuge vedovo veniva chiamato cattivu/a, dal latino captivus-a, prigioniero, vedovo e vedova.

La vedovanza era accostata concettualmente alla prigionia perché il sopravvissuto non usciva per lungo tempo di casa e, quindi, era come se restasse prigioniero del morto anche per il periodo successivo al lutto.

Un grande linguista ha ipotizzato il legame di  “cattìvo al significato di <miserabile, sventurato> che è quello della sua forma in francese antico, chetif; probabilmente tale evoluzione semantica ha qualche relazione con il significato di <prigioniero del peccato> che gli autori cristiani dei primi secoli conferivano a captivus” (C. Hagège, Morte e rinascita delle lingue, Milano, Feltrinelli, 2002, p.38); anche per questo significato, vedovo>sventurato ma anche prigioniero>ostaggio del morto, si potrebbe pensare ad una etimologia dal francese antico al calabrese attraverso qualcuna una delle dominazioni francofone nell’Italia meridionale.

Altra parola chiave del lutto calabro è Conortàri, dal latino cum-hortor e dal catalano conhortar, consolare assieme ad altri (cum) una persona che ha patito un grave lutto come nel proverbio, terribilmente clericale e antifemminista, che recitava:  mbiàta dda casa dundi nesci na chìrica rasa,/ mbiata dda porta dundi nesci ne fìmmina schetta morta/ cchiù grandi è e cchiù so mamma si conòrta (beata quella casa da cui esce una chirica rasa/ beata quella porta da cui esce una donna nubile morta/ più grande è e più sua mamma si consola).

Interessante l’aggettivo schettu, cioè non mescolato con persona dell’altro sesso, contrario di maritatu che copre semanticamente la condizione della donna che prende marito ma anche quella del maschio che prende moglie. Analogo a schittu che, accostato al pane, indica il cibo di chi, non avendo il companatico, si rassegnava a mangiare pani schittu o, al massimo, pani e cuteddhu.

La beatitudine della casa da cui usciva la ‘chirica rasa’ si spiegava col fatto che la presenza di un prete nella parentela comportava la promozione sociale dell’interessato e vantaggi economici non indifferenti per la famiglia di origine; infatti ciò che il sacerdote avrebbe accumulato in vita sarebbe tornato ai propri parenti dopo la morte.

D’altra parte se una donna nubile usciva da casa morta di certo si erano risparmiate le spese per il matrimonio e un paio di braccia avevano lavorato per tutta la vita a vantaggio del nucleo famigliare.

L’apice del conortari consisteva nell’aiutare la famiglia a rientrare nella normalità dopo la sepoltura del defunto, a riaggiustare la casa, u riconsu u cunsolu; gli amici e i parenti stretti cucinavano a casa propria un pranzo e poi lo portavano nella casa del lutto dove riacconciavano la tavola e offrivano il primo ristoro a chi era stato ferito dalla morte.

Spesso c’era concorrenza tra gli offerenti e il cibo più pregiato era la pasta con la carne al sugo:

Ogni pena e ogni dògghia

Pasta e carni la cumbògghia