L'ANALISI. Autonomia differenziata, diritti sociali in gabbia

L'ANALISI. Autonomia differenziata, diritti sociali in gabbia
A volte ritornano. Un tempo erano le gabbie salariali. Oggi tornano, “più belli e più forti che pria”, nella veste di gabbie sociali. Se la parola autonomia non vuole essere una finzione, se le si vuole restituire l’antico spessore etico-politico, bisogna fare l’esatto contrario di quello che si propongono di fare gli ineffabili Calderoli e Cassese tramite la cosiddetta legge di attuazione dell’autonomia differenziata e i tentativi in corso di peggiorarla ulteriormente.
Bisogna tornare ai fondamentali del disegno costituzionale. Quei fondamentali che esigono dalla Repubblica più autonomia progettuale per tutti gli enti territoriali e meno differenziazione di risorse tra essi. Bisogna prendere sul serio la previsione della Carta degli italiani, l’art. 119, comma 3, che prevede l’istituzione di un «fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Un fondo sufficientemente capiente per il finanziamento di tutte le funzioni regionali. Hic Rhodus. hic
salta.

I fautori dell’autonomia differenziata non vogliono solo fare le nozze con i fichi secchi. Vogliono proprio mandare all’aria quel matrimonio di storia e di amore tra le diverse popolazioni e territori dello stivale che l’articolo 1 della Costituzione chiama Italia e che l’articolo 5 esige sia una nazione. Una nazione, «una e indivisibile». Il principio a cui si ispirano Calderoli e compagnia è, al contrario, espressione del più bieco classismo ed egoismo corporativo: chi più ha più deve ricevere. Nessuna perequazione. Anzi, si intende perniciosamente collegare l’ammontare delle risorse finanziarie da trasferire alle Regioni richiedenti nuove competenze al gettito dei tributi dei residenti nel territorio regionale. Si scrive residuo fiscale, si legge a chi più ha, più sarà dato.

Una vergogna! Una vergogna sociale, questo è la Repubblica delle destre: quella salviniana non meno di quella meloniana. Per fortuna oggi, grazie alla straordinaria mobilitazione popolare di questi mesi, noi possiamo celebrare due buone notizie. La prima non era affatto
scontata: la raccolta delle firme sulla cosiddetta autonomia differenziata è andata bene, molto bene. Grazie, innanzitutto, alla Cgil. La seconda notizia è altrettanto positiva. Le forze che sostengono la legge Calderoli hanno paura, paura di perdere il referendum. E la paura e la premura, si sa, sono cattive consigliere.

Già prima che la scadessero i termini per la raccolta delle firme, il Ministro Calderoli ha scompostamente gridato a destra e a manca che il referendum sulla sua legge è inammissibile. Un errore di grammatica politica, prima ancora che un errore di grammatica costituzionale. L’errore di grammatica politica è palese. Il Ministro si appella impropriamente alla Corte costituzionale affinché promuova di fatto il suo compitino, un compitino scritto male e pieno di errori. Un errore di psicologia comunicativa che porta allo
scoperto un desiderio infantile: il desiderio che il popolo non si esprima direttamente su una questione di capitale importanza per il futuro del nostro Stato sociale. Se il Ministro fosse così sicuro delle sue ragioni dovrebbe auspicare un giudizio di ammissibilità del referendum, invece che fare un pressing preventivo sulla Corte. Ma sicuro non lo è affatto: bocciato, bocciato in politica. Bocciato non solo dalla Cgil, dalle opposizioni, da tante istituzioni. L’elenco è lungo - Ufficio parlamentare di Bilancio, Banca d’Italia, Corte dei Conti, Unione europea - e le motivazioni convergono tutte su un punto. Maggiori costi per le imprese, maggiori oneri per la pubblica amministrazione, maggiori aggravi per le nostre già malmesse finanze pubbliche. I conti non tornano. Bocciato, bocciato in finanza pubblica e ancor prima in aritmetica.

E poi ci sono le decisive bocciature di tanti che denunciano, dati alla mano, le crescenti ingiustizie territoriali e sociali che questa autonomia differenziata produrrà. L’extra-finanziamento per le Regioni ad autonomia differenziata di cui parla la Svimez. Le diseguaglianze sanitarie denunciate dalla fondazione Gimbe. L’allarme dei vescovi italiani per la rottura del vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni del Paese. Altro che destra sociale. Bocciata anche la premier che, in ragione di un calcolo di corto respiro, non esita a mettere da parte il suo pur retrivo, reazionario e retorico Dna. Dio, patria e famiglia.

E, tuttavia, non possiamo dormire sonni tranquilli. Specie se nei prossimi mesi verranno modificati gli equilibri all’interno della Corte costituzionale. Un colpo di mano è possibile. E anche l’oscillante giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità dei referendum autorizza le destre a sperare che la mobilitazione popolare di questi mesi possa essere vanificata. Possibile, non probabile. Tocca alla nostra intelligenza e alla mobilitazione che sapremo
attivare far pendere il pendolo dalla parte giusta.

L’argomento della pluralità delle disposizioni normative che verrebbero abrogate prova troppo. Non è scritto in nessuna disposizione della Carta degli italiani che non si possa abrogare una legge nel suo complesso. Il referendum è un istituto di democrazia diretta con cui il corpo elettorale è chiamato ad esprimere un indirizzo politico complessivo. Sostiene Calderoli che il quesito rivolto al corpo elettorale non è omogeneo, tocca troppe materie e che per questa ragione la Corte lo dichiarerà non ammissibile. Una mezza verità, cioè una bugia. Non esiste una legge che non tocca una molteplicità di materie e l’art. 75 della Costituzione italiana è sul punto inequivocabile: «È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge (…) quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». È indetto, no “può essere indetto”. Nessun azzeccagarbugli ci convincerà di essere d’accordo con qualche parte della cosiddetta autonomia differenziata: qui siamo tutti - come ha felicemente detto Romano Prodi -contrarissimi dalla A alla Z alla scellerata filosofia sociale contenuta nella legge Calderoli.

C’è poi l’argomento che la legge sull’autonomia differenziata è collegata alla legge di Bilancio per il 2024 e che quindi il referendum violerebbe l’articolo 75 della Costituzione in base al quale non si possono sottoporre a referendum leggi che incidono sulla finanza pubblica. Qui Calderoli dimentica che è la sua stessa legge a prevedere formalmente una clausola di invarianza finanziaria. Si metta il Ministro d’accordo con sé stesso. Lo sappiamo, non è stato mai facile per Calderoli. Bocciato, bocciato per mancanza di coerenza e per mancanza di memoria.

C’è, infine, l’argomento riguardante il legame tra la legge sull’autonomia differenziata e la Costituzione. Secondo il ministro la legge sull’autonomia non potrebbe essere sottoposta a referendum perché è «costituzionalmente necessaria». Qui proprio Calderoli non ha nemmeno letto la Costituzione. L’articolo 116 della Costituzione non dice che l’autonomia differenziata debba essere attuata per forza con una legge, tant’è che in passato i precedenti governi avevano cercato di attuare l’autonomia attraverso singole intese con le regioni. La legge non è, insomma, un passaggio espressamente previsto dalla Carta costituzionale, è solo una scelta politica dell’attuale maggioranza e come tale legittimamente passibile di consultazione referendaria.

Possiamo fare qualcosa per aiutare il giudice delle leggi a ben orientarsi? Possiamo. Possiamo chiarire, più di quanto abbiamo già fatto, che noi siamo a favore di una autentica autonomia degli enti territoriali e che, viceversa, la differenziazione proposta dall’attuale maggioranza è il frutto di un modello non solo classista ma anche astratto e ideologico, lontano tanto dal disegno originario della costituzione quanto dall’attuale art. 116, terzo comma introdotto con la riforma del 2001. L’autentica autonomia esige che la  differenziazione nelle competenze sia chiaramente motivata, come accade per le Regioni a statuto speciale, sulla base delle specifiche storie e vocazioni dei diversi territori e delle loro comunità. E che venga provato che le Regioni interessate assicureranno ai cittadini delle regioni interessate prestazioni e servizi migliori senza danno per i diritti dei cittadini delle altre regioni.

Tutto il contrario di quanto accade con la legge Calderoli, come dimostra la confusione sovrana che oggi regna in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni attinenti ai diritti civili e sociali. Cosa sono, infatti, i Lep correttamente intesi? Per la Costituzione (art. 117 comma 2, lettera m) sono i diritti che devono essere egualmente garantiti su tutto il territorio nazionale, come peraltro affermato a più riprese dalla Corte costituzionale (sentt. 220/2021, 142/2021, 62/2020). Per questa ragione, la determinazione dei LEP non può non comportare l’attribuzione alle amministrazioni competenti dei mezzi finanziari a tal fine. É quanto previsto dal quarto comma dell’art. 119 Cost. che impone che le risorse assegnate agli enti territoriali siano sufficienti al finanziamento “integrale” delle funzioni attribuite. È ciò che esattamente non fa la legge Calderoli. Altro che attuazione della Carta, siamo di fronte ad una legge di disapplicazione dei suoi principi fondamentali. Dalle mie parti, questo si chiama attentato alla Costituzione. Ma procediamo con ordine.

In primo luogo, l’art. 116 co. 3 Cost. parla di condizioni “particolari” di autonomia. Come dire che la Regione non può chiedere tutto, ma solo le materie e funzioni strettamente giustificate dalla sua comprovata vocazione territoriale. Nella Legge 86 manca, invece, un parametro oggettivo di cernita nel confuso bagaglio delle materie. L’assenza di un qualsiasi onere motivazionale a sostegno della devoluzione delle competenze viola in un sol colpo gli artt. 116, co. 3, e il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. Complimenti!

In secondo luogo, la devoluzione in blocco di intere materie svuota il principio della competenza concorrente Stato-Regioni. Si creano Regioni iper-speciali che, non solo avranno più competenze di quelle speciali, ma saranno anche sollevate dal limite di legittimità. Una violazione dell’arti. 5 e dell’art.114 che disegna enti territoriali autonomi ma «secondo i principi fissati dalla Costituzione». Un disegno eversivo che rompe l’unità giuridica e politica della nazione. Un unicum nel mondo conosciuto delle forme di Stato regionali e federali, come del resto lo è la forma di governo del cosiddetto premierato  elettivo. Complimenti, complimenti ancora!

In terzo luogo - questo è il tema più inquietante - Calderoli vorrebbe trasformare la natura giuridica dei Lep. Per la Costituzione si tratta di diritti sociali e civili di natura fondamentale sempre meritevoli di soddisfazione. Sin ad oggi per la Corte Costituzionale ciò esigeva una “soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali, nonché un
‘nucleo invalicabile di garanzie minime’ per rendere effettivi tali diritti”. La legge n. 86 ha eliminato le parole “di spesa” e “di garanzie minime”, provando a sganciare l’operatività della devoluzione dall’effettivo finanziamento dei diritti. L’unico principio e criterio direttivo della L. 86 è, infatti, l’invarianza di spesa, di modo che i diritti sociali e civili meritevoli vengono declassati a diritti a esecuzione futura e incerta. “Pagherò se potrò”. Il rovesciamento  è totale. Da diritti soggettivi ad aspettative di mero fatto: i cittadini da titolari di diritti a sudditi supplichevoli di una grazia (parere pro-veritate di Giovanna De Minico per Anci Campania).

Questo proprio non si può fare. Pare che persino gli eredi di Silvio Berlusconi siano consapevoli della necessità di associare i diritti a numeri precisi. E così nelle scorse settimane Cassese ha nominato una Commissione di dodici esperti - esperti di provenienza leghista, una contraddizione in termini - che hanno escogitato un rimedio peggiore del male. Quella per cui i fabbisogni standard vanno calcolati “in base alle caratteristiche dei diversi territori, clima, costo della vita e agli aspetti sociodemografici della popolazione residente”. Dunque, i fabbisogni e, quindi, i diritti vanno differenziati. Cioè, messi in gabbia in base allo storico cavallo di battaglia della Lega, il supposto minor costo della vita al Sud, nelle zone interne, o magari anche in Umbria o nelle Marche. E poi i diritti vanno  differenziati anche in base alle dinamiche demografiche. Dove nascono meno bambini, si può spendere meno per gli asili nido, dimenticando che la bassa natalità è anche conseguenza della carenza di servizi.

Chissà poi come verranno interpretate le caratteristiche climatiche. Ce ne è abbastanza per spiegare, ancor più di come abbiamo fatto, che questa autonomia differenziata avvelena tutti indistintamente: chiedano tutti insieme i cittadini, di sinistra e di destra, che la smettano. E che non provino a scippare il referendum. Vigileremo, vigileremo anche sul Giudice delle leggi. Gabbie sociali e poi magari di nuovo gabbie salariali ‘legali’? No, grazie.

*prof ordinario Diritto costituzionale, UniUrbino