raccontino una Calabria vera, non letteraria o cinematografica’’. Alcuni giorni fa Marcello
Furriolo ha scritto un’invettiva potente su un tema decisivo per il racconto della nostra
terra.
Tutto è rimasto fermo. Ovviamente direi quasi, perché in questa nostra bella Calabria
quando ci provarono Mario Oliverio e un gruppetto di sognatori (tra i quali immodestamente il sottoscritto) a riunire ad Africo, 6 anni fa, intellettuali di vario genere
per tentare un primo approccio di narrazione normale (rpt normale, non diversa) della
Calabria molti ebbero da ridire e criticare. Poi Gioacchino Criaco si è incaricato
lodevolmente di fare andare avanti l’esperimento e l’ha fatto anche ad agosto scorso. Ma il
punto resta fermo.
Si può, cioè, puntare ad una narrazione normale della Calabria? Non vorrei infatti che si
mandasse dispersa la possibilità, l’ennesima, di avviare un dibattito, che considero centrale
e fondamentale per la Calabria: l’immagine, la sua immagine, i pregiudizi vecchi e nuovi,
cosa fare per cercare di uscire da una strettoia in cui noi stessi e gli altri hanno finito col
metterci. Sono gli intellettuali meridionali e calabresi in particolare ad essere messi nel
mirino delle critiche, nell’ambito di un ragionamento che non ha affatto eluso i nodi della
riproposizione stanca e stantia di una immagine della Calabria e del sud stereotipata:
guardiamo, per ultimo, a come i media nazionali hanno trattato le recenti sciagure in
Emilia e Toscana e come, invece, le alluvioni ricorrenti in Calabria, non abbiano riscosso il
medesimo interesse giornalistico. Ed i morti, ad esempio, di Messina siano stati addirittura
di serie B (se non di C) rispetto a quelli della Toscana.
Questo richiama, dunque, l’esigenza di quella ‘narrazione normale’ dei fatti calabri, di cui
gli stessi calabresi devono farsi interpreti, nonchè la presa di coscienza, amara, di una
società civile (così detta) incapace di mettersi dinanzi a quella politica, che resta però il
perno di tutte le inefficienze. Una classe politica, quella calabrese, che manifesta al suo
interno tutti quei problemi che ne fanno un’entità ormai ‘derelitta’ (questa sì, non la
Calabria).
L’altra sera in un dibattito è riemersa una critica netta a un certo tipo di intellettualità calabrese, ‘ammesso che ci sia’ (in molti hanno fatto segno di no). Un’intellettualità che,
noi crediamo invece ve ne siano ancora di tracce, ha il dovere morale oggi più di ieri, di
farsi interprete di questo percorso di crescita del Mezzogiorno e della Calabria
specialmente; un’intellettualità che sia parte civica attiva, che alle provocazioni di un certo
sterile intellettualismo leghista sappia rispondere con fierezza delle proprie identità, ma
senza che queste siano motivo per ancorarsi e dilatare ancora le speranze di crescita. O
peggio cadano nel rancorismo, nel provincialismo, nel vittimismo: tre angoli da cui
sfuggire per lanciare appunto, con serietà e rigore, l’approccio alla narrazione normale
della Calabria, che poi significa narrazione di quel che accade senza sconti a nessuno, ma
anche di quel che accade e che non viene raccontato da nessuno. La via è stretta ma si può
tentare di percorrerla a patto che gli intellettuali – ha detto una volta Paolo Rumiz – la
smettano di guardare il proprio ombelico.
Ha scritto mesi fa Laura Cirella: ‘’La Calabria negli ultimi anni ha dato alcune positive
dimostrazioni di come possa praticarsi una narrazione capace di declinare nuovamente
appartenenze e luoghi. Le esperienze dei borghi ripopolati dai tanti migranti che trovano
riscatto e possibilità, quando la visione politica stimola e consente questa trasformazione,
così come i tentativi, anche con esiti promettenti, delle tante organizzazioni sociali che sul
proprio territorio progettano, gettando avanti visioni nuove, sono tutte esperienze da non
sottovalutare. Da Camini a Belmonte Calabro, dalla Locride al crotonese, se volessimo
tracciare una mappa reticolare di quanto di buono viene quotidianamente prodotto, non
senza sforzi, ci renderemmo conto che più di qualcosa si muove’’.
Dall’altra parte deve esserci, però, la correttezza e la lealtà dei comportamenti: come si
potrà mai pensare ad una nuova e vera narrazione normale della Calabria se la sanità viene
lasciata nelle condizioni in cui è oggi? Se il sistema dei trasporti versa nello stato pietoso
sotto gli occhi di tutti? E sono questi gli esempi più vistosi. Per togliere l’acqua da quel
racconto di cui Alvaro 70 anni fa prendeva apertamente le distanze c’e’ bisogno di una
concretezza dell’agire politico ed istituzionale che muti lo stato materiale delle cose e poi
dell’impegno altrettanto concreto e fattivo della comunità locale. Cioè dei calabresi tutti.
E ritorniamo così ad Africo: sei anni fa si tentò di mettere assieme le forze migliori dell’intellettualità calabrese e italiana, operante in regione e fuori, partendo da un luogo simbolo di quella narrazione maledetta che era Africo vecchio, nel cuore della montagna altrettanto simbolo di quella stessa narrazione maledetta e cioè l’Aspromonte.
Ecco: ci vorrebbero altri 10, 100 operazioni Africo ogni anno per rivoltare quell’immagine
così diffusa e permeata nel tessuto di tutto il Paese e fare una rappresentazione di realtà.