NAPOLI. La città discuta e s'impegni per prosciugare la delinquenza minorile

NAPOLI. La città discuta e s'impegni per prosciugare la delinquenza minorile
Quello che ormai spaventa della violenza dei giovanissimi a Napoli e provincia è che essa si presenta senza strumenti immediatamente disponibili per mitigarla. Sembrano essersi esaurite quelle varie forme di dissuasione che si frappongono nei rapporti sociali e interindividuali per rendere la risposta violenta meno conveniente per chi la agisce. Non è, innanzitutto, operante la deterrenza che un tempo rendeva efficace la risposta difensiva da parte di un presunto offeso: il violento che oggi aggredisce ha il vantaggio della dotazione di armi da fuoco che rende ininfluente o impotente la probabile difesa da parte della vittima. Si è consolidata così la rottura della tradizionale deterrenza dovuta all’equilibrio delle armi a disposizione: coltellino contro coltellino, forza fisica delle mani e dei piedi contro forza fisica delle mani e dei piedi altrui, lasciando spazio negli ultimi casi di omicidio quasi sempre armati da armi da fuoco, la cui larga presenza è un incentivo permanente alla vigliaccheria e al sopruso. Si è consolidata una impressionante sproporzione di mezzi tra l’aggressore e il potenziale aggredito lungo le strade della violenza di Napoli.

Per di più, gli aggrediti vengono scelti in gruppi che si presuppone non siano dello stesso ambiente, e quindi inoffensivi dal punto di vista della replica violenta. Ci si scontra tra piccoli eserciti armati e gruppi di adolescenti disarmati che si trovano a interagire tra di loro. C’è disprezzo per l’altrui impotenza a reagire e c’è vigliaccheria nel sapere che non possono farlo, proprio perché mancano delle stesse armi. Questa sproporzione di mezzi mi sembra oggi l’elemento più fuori controllo della situazione dell’ordine pubblico in città e provincia. Le armi letali degli adulti sono da tempo entrate sulla scena criminale a disposizione di centinaia di ragazzini che ne fanno un prolungamento armato della loro debolezza fisica e psicologica.

Altro fattore da tempo sbilanciante è la assoluta mancata considerazione sulle conseguenze di tali azioni sul futuro dei giovani assassini. Il presente li assorbe totalmente. Come se la loro vita fosse già segnata e niente può peggiorarla. La galera o il carcere minorile non ha niente di “scoraggiante” da tempo, anzi è considerato come elemento che aggiunge fascino e nomea al proprio curriculum. Il timore della probabile pena (che già di per sé non rappresenta un freno data la dimestichezza che hanno con il carcere a causa dei molti loro familiari detenuti) si abbassa ancora di più data la non premeditazione degli atti che si commettono a quella età contro quelli che poi materialmente ne saranno le vittime (non sai chi incontri sulla tua strada a sporcarti le scarpe di lusso): si è pronti; quindi, alla risposta violenta ma non si sa ancora contro chi, dove e quando avverrà.

Quello che colpisce è che, mentre negli omicidi degli adulti si sa bene chi viene ammazzato da parte dell’assassino, è più difficile che si conoscano bene tra di loro vittime e carnefici nei delitti di strada dei giovanissimi. Ciò rende gli atti di sangue meno sottoposti al vincolo e al freno della lunga incubazione nei confronti del singolo “oppositore” e quasi ci si sente più sciolti dalla mancanza della conoscenza diretta dell’avversario, il quale è un nemico senza volto, una cosa da niente, un insignificante ostacolo al proprio dominio sul territorio e sugli altri. Sono delitti che avvengono da vicino ma sono lontani dalla premeditazione, dalla elaborazione e quindi ancora più sciolti della lunga sedimentazione e quindi anche della possibilità di evitarlo.

La terza deterrenza che viene meno è quella della considerazione negativa nel proprio ambiente di appartenenza. E per ambiente non si deve intendere solo la famiglia dei giovani assassini. Come se si fosse messo in moto un meccanismo permanente di auto-giustificazione in diretta contrapposizione alla larga stigmatizzazione degli ambienti di provenienza delle vittime. I ragazzi assassini si difendono convinti dalla presunta aggressività di chi hanno colpito, applicano il proprio codice di reazione a tutti gli altri, comprese le vittime, come se fosse la loro violenza “normale” approccio in ambienti di per sé ostili. Si sprigiona dalla propria psiche, sostenuta dall’ambiente di
riferimento, una ricerca permanente di cause giustificative, che rispondono al vuoto della premeditazione. In questo caso la vittima è considerata un debole che ha avuto la presunzione di reagire alla forza, un inadatto a muoversi adeguatamente nella giungla urbana. La banalità dell’omicidio è valutata come atto di difesa preventiva in ambienti intossicati proprio dalla presenza di questi facili assassini! E, per di più, in loro prevale il convincimento che in altri ambienti (quelli camorristici) il comportamento omicidiario non sarà valutato in negativo per la propria carriera criminale.

Se in una comunità saltano le deterrenze che si sono costruite per contenere in un limite accettabile la violenza potenzialmente utilizzabile nelle relazioni sociali, siamo a rischio della resa al l male nella speranza residua che non capiti a qualcuno di noi o a un nostro familiare. Ma a tutti i costi si deve provare a sconfiggere l’impotenza con più solide e condivise riflessioni sul destino di una città che aggiunge ad una esplosività sociale permanente anche la consumazione dei tradizionali meccanismi di argine alla violenza. A partire dal fatto che il decreto Caivano si è
dimostrato assolutamente inadeguato a rappresentare in una discussione più ampia, fuori da strumentalizzazioni politiche, il grande tema della presenza di un esercito di riserva delinquenziale tra i giovanissimi che resta il problema prioritario da affrontare. Come ridurlo nel tempo, come prosciugarlo? Con quali risorse, con quale consenso? Ne discuta la città.