È importante qualificare in questi termini il lavoro di ogni sanitario per dissipare i tanti dubbi che imperversano attorno ad un tema che sempre più spesso i redattori di notizie inquadrano tra la cronaca giudiziaria col sottotitolo di “malasanità” talvolta alimentando il legittimo desiderio delle “vittime” di conoscere la verità che si nasconde all’interno di una cartella clinica nefasta.
Le “morti in corsia” comportano indagini giudiziarie con costosissimi interventi di periti ed un inevitabile stuolo di legali e parenti che, con toni forti, esigono giustizia.
Elaborare il dolore per la perdita di una persona cara è arduo per chi si trova improvvisamente da solo ad affrontare il futuro, per chi subisce una screziatura nell’anima che non guarisce mai. Tuttavia, ogni mancanza deve essere elaborata in modo corretto e non di certo, a parer mio, sottoscrivendo un esposto al magistrato penale. Da tempo coloro che si occupano di salute psichica, manifestano chiara attenzione al corretto procedimento mentale di elaborazione del lutto proprio al fine di evitare che il dolore momentaneo si trasformi in ossessione o peggio, in spasmodico desiderio di vendetta.
Se questo è il giusto presupposto, la conclusione alla quale facilmente si può pervenire è nel senso che raramente, nelle morti per “malasanità”, sotto al camice si nasconde un criminale.
Nella stragrande maggioranza dei casi, la figura che emerge è piuttosto quella del somaro. E il termine somaro non equivale a malvivente. A far la differenza è un intero concetto che sottintende: ore di lavoro, dedizione, cura, curriculum, studio dei casi, aggiornamento.
Certamente se quell’operatore imperito ha osato prendere in mano il bisturi, ha somministrato un farmaco inadatto, ha omesso la formulazione di una corretta diagnosi, ed in ciò ha causato un danno, è giusto che paghi.
Ma occorre chiedersi prima, al momento di ogni tragico evento: è giusto equiparare un asino ad un carnefice? Beh, pare proprio di no. Certo che non lo è.
La strada da percorrere, dunque, non è quella di recarsi al primo posto di Polizia e presentare esposti che trasudano rabbia e dolore.
Per i casi di malasanità che si verificano, in tutte le latitudini, non solo in Calabria: la via giusta è quella del procedimento civile con la necessaria assistenza di un esperto in medicina legale.
Sarà il magistrato civile con lo strumentario che gli è proprio, fatto di rigorosa valutazione del rapporto causa-effetto ad individuare ogni responsabilità. Nessun medico manifesta l’intenzione di sopprimere il paziente, di provocare ferite fisiche o morali; spesso gli sbagli avvengono per violazione di norme di diligenza, per precauzioni non adoperate, per violazione di buone pratiche che il magistrato penale fa fatica ad individuare e che l’operatore civile applica quotidianamente.
La verità alla quale i pazienti danneggiati ed i parenti superstiti anelano, emergerà effettivamente solo dalle carte del processo civile, l’unica strada idonea a rendere giustizia, sia alle vittime, sia a coloro che operano all’interno degli ospedali e che, proprio al fine di tutelare la salute della collettività, devono essere messi in grado di affrontare il rapporto con l’ammalato in termini di fiducia e di sicurezza, senza temere ritorsioni, denunce o ancor peggio preventive messinscene mediatiche.