«La legge dello scioglimento va rivista. La magistratura non ha sempre ragione e chi fa politica deve avere un proprio punto di vista autonomo e fare battaglia per affermarlo, anche quando ci sono accuse pesanti. Oggi una semplice indagine comporta l'abbandono dell'amministratore coinvolto». A scrivere queste parole è Enzo Ciconte, fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle associazioni mafiose, docente di "Storia delle Mafie Italiane" all’Università di Pavia ed ex deputato Pci. Uno di quelli che la legge sullo scioglimento dei Consigli comunali l’ha vista nascere mettendoci mano. Ma quella legge, nata come emergenziale, denuncia oggi Ciconte, va cambiata. «Perché la scelta di sciogliere un’amministrazione - spiega al Dubbio - è inevitabilmente politica». E, soprattutto, lascia su troppi innocenti uno stigma gratuito di mafiosità.
Professore, perché questa legge secondo lei non è efficace?
Il problema, sin da quando abbiamo fatto la legge - all’epoca ero deputato -, è che, essendo una decisione che passa dal ministero dell’Interno, si tratta inevitabilmente di una scelta politica.
Quanto pesa la componente politica nel giudizio?
Molto. Se tu sciogli organismi politici elettivi e questa decisione la fai prendere ad un organismo di governo è chiaro che la tentazione di sciogliere i tuoi avversari ci sta. Ma l’altro aspetto che stride è che teoricamente la ratio della legge è “liberarsi” degli amministratori collusi e fare in modo che si eleggano cittadini che non siano nella condizione di far infiltrare il Consiglio. Ma questo non è avvenuto: ci sono Comuni le cui amministrazioni comunali vengono sciolte più e più volte. Cos’è, una tara di quel Comune? È nel suo dna avere amministratori mafiosi? O il problema non riguarda tanto gli amministratori quanto l’apparato burocratico? Vuol dire che c’è un meccanismo che non funziona. Perché l’apparato burocratico non viene rimosso.
Quindi qual è la soluzione?
Di questa questione se n’era occupata la Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, che proponeva di accompagnare, anziché scioglierlo, il Consiglio comunale, con un sostegno esterno in grado di guidare e aiutare l’amministrazione a non cadere in questi errori. C’è un eccessivo uso discrezionale delle parentele come causa di scioglimento. Nei piccoli paesi, però, è quasi scontato avere parenti anche scomodi, ma ciò non significa nulla: perché dovrebbe essere un criterio per sciogliere un’amministrazione? È arrivato il momento di affrontare questo problema. Nelle relazioni non risulta mai che ogni singolo consigliere sia veicolo di infiltrazione. Allora perché si deve affibbiare lo stigma a tutti quanti? Se ci sono persone perbene, perché vanno messe nel calderone come gli altri?
Il problema, però, c’è sempre stato.
La maggior parte degli scioglimenti è sicuramente corretta, però gli errori e le forzature sono parecchi e per evitarli è giusto modificare la legge, a tutela dell’onorabilità di persone che non c’entrano nulla con la mafia e non possono finire in questo calderone senza avere alcuna responsabilità. Perché quel marchio ti rimane, non viene cancellato.
Il caso Bassolino dimostra che basta un’indagine per distruggere un amministratore.
La sua storia è clamorosa e vergognosa. Non è possibile subire 19 processi e che tutti finiscano male per la pubblica accusa. Due sono le cose: o era un atto politico per mettere sotto accusa una persona di rilievo oppure c’è un’incapacità nel fare le indagini. Non c’è altra spiegazione.
Però ad abbandonarlo sono stati la politica e parte dell’opinione pubblica.
Sì, perché c’è stato un lungo periodo, in Italia, per cui si è dato per scontato che l’attività della magistratura fosse salvifica. E quindi ci si è affidati alla magistratura per risolvere i propri problemi. Nel momento in cui si fa questa operazione, che è culturale, si rinuncia ad avere un punto di vista autonomo. Ciò spesso impedisce di capire dove la magistratura fa bene e dove fa male, perché i magistrati possono sbagliare, come tutti gli altri.
Però l’idea che si tratti di “super eroi” è molto diffusa.
Una delle responsabilità serie del movimento antimafia in Italia è stata quella di avere delegato alla magistratura la soluzione del problema della mafia. Abbiamo guardato le cose come se fossimo degli spettatori, chiedendo ai magistrati che risolvessero il problema per conto nostro. Ma il problema non si risolve da un punto di vista giudiziario. È una questione sociale, culturale, politica. Ci sono atteggiamenti che non hanno a che fare con il codice penale: la magistratura può intervenire sui fenomeni mafiosi macroscopici, però per il resto devono intervenire la politica, la chiesa, la scuola.
Un altro esempio di questi giorni è quello dell’ex rettore de La Sapienza, Eugenio Gaudio: dopo la sua nomina a commissario della sanità calabrese i giornali hanno tirato fuori la vecchia indagine sui concorsi truccati a Catania, per la quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e l’opinione pubblica lo ha crocifisso.
Bisogna capire che una comunicazione giudiziaria non significa nulla. Questo caso, come quello di Bassolino, sollevano un problema di rapporti tra magistratura, opinione pubblica e politica di grande livello. Non so se c’è lo spirito necessario per affrontarlo con la dovuta serenità.
Come si potrebbe agire per interrompere questo circolo vizioso?
Se il giornalista, anziché fare l’inchiesta, si affida alla velina della magistratura o prende per ora colato quello che dice la magistratura senza approfondire, non fa il suo mestiere, fa un’altra cosa. C’è un problema della stampa, della magistratura, della politica e dell’economia, perché le forze economiche hanno interesse a fare queste cose. Bisogna mettere insieme tutto questo e ragionare serenamente. Non è possibile che avvengano queste cose, è un fatto di civiltà.
Sul suo profilo Facebook, ha ricordato quando Pino Commodari, nel 1991 assessore ai lavori pubblici del Comune di Sant’Andrea Apostolo sullo Jonio, fu arrestato e mostrato nei tg nazionali con le manette ai polsi. Perché?
Rimasi sconvolto nel vedere un mio compagno di partito - lo conoscevo bene e tutto poteva essere meno che un mafioso - sbattuto in tv con le manette ai polsi, come Enzo Tortora. Un arresto che, poi, si rivelò, sbagliato: lui e il sindaco Mimmo Frustagli furono scagionati e risarciti per ingiusta detenzione e lo scioglimento del Consiglio comunale annullato. Perché è stato esibito in quel modo? Prendiamo il modo in cui i giornalisti hanno trattato Bassolino: quanto tempo è durato e con quanta evidenza il racconto sulle accuse e quanto quello sull’assoluzione? Una sproporzione pazzesca. C’è una distorsione, un corto circuito, e non se ne riesce a venire a capo. La cosa che a me interessa è salvaguardare gli innocenti. Oggi, però, posso dire che siamo tornati al medioevo.