LONGFORM. Alfabeto delle mafie. Lettera T: terrorismo e mafie

LONGFORM. Alfabeto delle mafie. Lettera T: terrorismo e mafie

Il terrorismo è una forma di violenza differente dai fenomeni mafiosi. Lo è per motivazioni, per modalità organizzative, per finalità. Negli ultimi decenni, è stato il traffico di droghe a stabilire alcune convergenze tra terroristi e mafiosi in rapporto alla necessità delle organizzazioni terroristiche di finanziare le loro attività. In linea di massima, le due forme di violenza presentano obiettivi strategici ben distinti: il terrorista usa la violenza per scopi “collettivi”, il mafioso per scopo individuali; il primo vuole cambiare radicalmente la società in cui vive sulla base di una precisa visione religiosa o politica, il secondo vuole cambiare la sua condizione sociale ed economica; il primo intende rivoltare il mondo, il secondo vuole solo arricchirsi in questo mondo. Insomma, un terrorista uccide per ideologia, il mafioso per eliminare chi contrasta i suoi interessi personali. La cosa che li accomuna è la concezione della vita umana, che non vale niente per entrambi di fronte alla necessità di creare un’altra umanità o un’altra società (per il terrorista) o di non ostacolare la propria ascesa sociale (per il mafioso).

L’Italia è uno dei pochi paesi occidentali in cui la violenza mafiosa e quella terroristica hanno convissuto nello stesso periodo storico, anche se la presenza delle mafie si è radicata in Italia molto prima che la scena politica venisse occupata da varie forme di terrorismo (quello del separatismo siciliano e sudtirolese o delle varie sigle del terrorismo rosso e nero). Lo Stato italiano, tuttavia, è apparso efficiente contro il terrorismo e non contro le mafie ed è lecito chiedersi perché.

La risposta è molto semplice. I terroristi sono esterni allo Stato, vogliono abbatterlo. I mafiosi no, non sono in guerra contro di esso, o in ogni caso non sentono come avversario lo Stato ma solo singoli uomini che lo rappresentano e che hanno deciso di combattere i mafiosi. Inoltre, il terrorismo non è una componente dell’economia, mentre le mafie sì. I terroristi non hanno obiettivi di lucro, i mafiosi sì.

La violenza di relazione
Ciò premesso, è un fatto incontrovertibile che le mafie sono le uniche organizzazioni criminali a valenza politica pur non appartenendo alle forme classiche del terrorismo. Si può, infatti, definire “mafia” quel tipo di violenza che si relaziona con la politica e le istituzioni e che ha bisogno del rapporto con il mondo politico per consolidare il suo potere violento. Tuttavia, a differenza del terrorismo, le mafie non sono forme oppositive al sistema politico e statuale ma di interlocuzione e integrazione con esso e addirittura di stabilizzazione del sistema. Ciò che definiamo mafia è violenza popolare che si è inserita dentro le strategie di potere delle classi dirigenti non per trasformare il sistema ma per stabilizzarlo. Quella mafiosa è violenza di stabilizzazione e non di rivolgimento, come in genere è la violenza dei terroristi, è criminalità organizzata che si muove dalla parte dei poteri costituiti, ne cerca il riconoscimento, la legittimazione, l’alleanza e la complicità. La mafia è, in definitiva, criminalità di potere e non di bisogno, è criminalità d’identità e non di necessità, è criminalità di ascesa sociale e non di ribellione. I terroristi sono antisistema, le mafie no.

In Italia i terroristi nel periodo 1969-1984 hanno ucciso 500 persone, comprese quelle vittime di stragi (solo alla stazione di Bologna nell’attentato del 1980 ci sono state 85 vittime). Se si calcolano gli assassinii rivendicati dalle sole Brigate rosse e dalle organizzazioni affini si scende al di sotto delle 100 vittime. Il numero più alto di morti per azioni terroristiche è quello causato dal terrorismo nero, che ha quasi sempre usato le stragi come suo metodo caratterizzante diversamente dai terroristi rossi che facevano attentati a individui specifici e alle loro scorte piuttosto che stragi di innocenti sui treni, nelle banche o nelle piazze. E la storia del terrorismo nero si è intrecciata in più momenti con quella delle mafie e dei servizi segreti, contrariamente a quella del terrorismo rosso che ne è rimasto fuori.

Perché la mafia si è intrecciata con l’eversione di destra?
Mentre i rapporti tra mafie e terrorismo rosso sono stati quasi inesistenti, se si escludono i contatti tra Cutolo e le Brigate rosse nel caso del rapimento nel 1981 dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo, i contatti tra estrema destra e mafie sono stati più organici o meno occasionali. In ogni caso, il terrorismo rosso non ha attecchito nel Sud, ad eccezione che in Campania, le Brigate rosse non hanno messo piede in Sicilia mentre l’estremismo neofascista ha avuto campo libero nei territori controllati dalle mafie, compresa la Sicilia.

L’intreccio tra mafia ed eversione di destra ha avuto ampi riscontri a partire dai moti di Reggio Calabria del 1970-1971 quando il movimento “Boia chi molla” si alleò con alcune famiglie ‘ndranghetiste, come i De Stefano, relazioni che sono state poi al centro di altre vicende calabresi, come la strage di Gioia Tauro. Alle 17:10 del 22 luglio 1970, la Freccia del Sud, il direttissimo Palermo-Torino, stracolmo di tanti emigranti che dalle zone estreme del meridione arrivavano nella città della Fiat, deragliò a poche centinaia di metri dalla stazione di Gioia Tauro mentre viaggiava a circa cento chilometri orari. Persero la vita sei persone (tra queste cinque donne) e si contarono settantadue feriti. Solo otto giorni prima era iniziata la rivolta di Reggio Calabria, a seguito della mancata assegnazione alla città sullo stretto del ruolo di capoluogo di regione. Nel 1993, nell'ambito del processo di mafia “Olimpia 1”, il pentito Giacomo Lauro confessò al giudice Vincenzo Macrì che era stato Vito Silverini, neofascista, a posizionare la bomba sulle rotaie per provocare il deragliamento del treno, come atto preparatorio di un piano golpista messo a punto dal principe Junio Valerio Borghese assieme ai neofascisti di Avanguardia nazionale. Il golpe era stato programmato per l’8 dicembre 1970 e il principe, già comandante della X Mas e poi dal 1951 al 1953 presidente del Msi, chiese l’aiuto anche della mafia siciliana. A confermarlo fu Luciano Liggio, che durante un processo si vantò del “no” detto alla partecipazione a quel golpe chiedendo benemerenze “per aver difeso la democrazia italiana” dal pericolo fascista! Nella strategia stragista messa in opera in Calabria parteciparono anche esponenti della destra eversiva e della loggia massonica P2, come ha  sostenuto il magistrato Giuseppe Lombardo.

Anche in Campania il clan di Giuseppe Misso si legò a molti esponenti neofascisti. Il capo camorra del rione Sanità fu coinvolto giudiziariamente (e poi definitivamente assolto) nell’attentato al rapido 904 nel 1984 in viaggio da Napoli e Milano, in cui morirono 16 persone e rimasero ferite più di 250. Per quello stesso attentato fu condannato Pippo Calò il boss della mafia siciliana operante a Roma. L'attentato fu compiuto con le stesse modalità e nello stesso tratto ferroviario di quello realizzato dai terroristi neofascisti ai danni del treno Italicus nel 1974, che causò 12 vittime.

Insomma, Cosa nostra avrebbe già nel 1984 utilizzato il metodo stragista per un messaggio alle istituzioni così da farle desistere dall’uso dei pentiti, cioè prima del 1992-1994. Questa ipotesi del presidente della Commissione parlamentare sulle stragi era stata già avanzata dagli inquirenti. Al di là della sua plausibilità, sta di fatto che un esponente di primo piano della mafia siciliana operante a Roma viene condannato per una strage compiuta fuori dalla Sicilia e contro persone inermi. Calò non avrebbe mai potuto organizzare quell’attentato senza il consenso della cupola di Cosa nostra e la prova della collaborazione con il terrorismo nero è facilmente riscontrabile nelle impressionanti somiglianze tra l’attentato al rapido 904 e quello neofascista al treno Italicus 10 anni prima.

Ancora più singolare l’uso della sigla Falange armata per rivendicare diversi attentati e omicidi effettuati in Sicilia, in Calabria e in altre parti d’Italia, compreso l’assassinio del presidente della regione Piersanti Mattarella il 6 gennaio 1981. La sigla era utilizzata in gran parte per depistare le indagini, attribuendosi reati commessi da altri o volendo occultare con rivendicazioni false i veri autori degli attentati. Falcone riteneva che uno dei killer di Mattarella fosse il neofascista Giusva Fioravanti, riconosciuto sulle foto segnaletiche dalla moglie del presidente (che era con il marito quando fu ammazzato) assieme a Gilberto Cavallini. Successivamente l’ipotesi investigativa fu scartata e Fioravanti e Cavallini scagionati.

Proprio in quel periodo diversi esponenti del terrorismo nero erano presenti a Palermo e in Sicilia. Sicuramente lo era Giusva Fioravanti secondo la testimonianza del fratello Cristiano. E sta di fatto che Paolo Bellini, condannato all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, è stato accusato di aver suggerito ai mafiosi, in particolare ad Antonino Gioè, di mirare con le stragi al patrimonio artistico italiano. Le bombe, infatti, furono messe davanti ad alcune delle più belle chiese della capitale e a pochi metri dalla galleria degli Uffizi di Firenze. Ed è significativo che il Gioè prima di suicidarsi (o di essere suicidato) nel carcere di Rebibbia nel 1993 scriva una lettera in cui cita proprio Bellini come tramite per il recupero di alcune opere d’arte rubate dai mafiosi. La richiesta era venuta dallo speciale reparto dei carabinieri, in cambio della possibilità di un miglior trattamento in carcere di alcuni mafiosi. Nel giugno 2023 Bellini viene indagato anche per la strage di Capaci. Vediamo cosa scrivono i giudici nella sentenza di condanna all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: “Bellini è personaggio complesso, che sfugge ad ogni intento definitorio, essendo nel corso della vita passato attraverso molteplici esperienze, dalle operazioni di spionaggio internazionale in giovane età alla stagione degli anni di piombo, dalla carcerazione in vari istituti penitenziari al divenire un interlocutore privilegiato di Cosa nostra, per arrivare, infine, al periodo in cui mise al servizio della ‘ndrangheta la sua dote migliore, l’arte di uccidere”.

Un altro boss, Giacchino La Barbera, ha confermato che fu Bellini a suggerire gli obiettivi “culturali” delle stragi. E la moglie di Bellini ha dichiarato che il marito si trovava a Palermo nei giorni dell’attentato a Giovanni Falcone. Che ci faceva in Sicilia? E cosa ci faceva nell’isola il terrorista nero Stefano Delle Chiaie tra il 1991 e il 1992? Come mai tanti leader del terrorismo neofascista sono presenti contemporaneamente sui luoghi dei futuri attentati a Mattarella; Falcone e Borsellino e sono al tempo stesso autori di alcuni delle stragi che hanno contrassegnato la storia d’Italia del secondo dopoguerra?

Non va dimenticato che appena sei mesi dopo l’assassino di Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) ci fu l’attentato alla stazione di Bologna (2 agosto 1980) e che non solo furono coinvolti in quella strage gli stessi terroristi neri accusati da Giovanni Falcone di essere i killer di Mattarella, ma che ad idearla fu Federico Umberto D’Amato, il responsabile di un delicato settore del Ministero degli interni (l’ufficio Affari Riservati), assieme al capo della loggia massonica segreta P2 Licio Gelli. La sentenza della Corte d’appello di Bologna del luglio 2024 conferma che a ideare la strategia della tensione sono stati apparati deviati dello Stato italiano in accordo con settori della massoneria e che a sorreggerla e a realizzarla sono stati terroristi neofascisti. E un altro esponente dei vertici dei servizi segreti italiani, il generale Gianadelio Maletti, fu condannato a 15 anni di reclusione come corresponsabile della strage di Piazza Fontana avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969 (17 morti e 88 feriti). Per l’attentato ai  Georgofili di Firenze della notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 (5 morti e 48 feriti) una relazione della Commissione antimafia afferma che oltre ai mafiosi furono coinvolti altri soggetti che potenziarono il tritolo predisposto dai mafiosi così da rendere l’esplosione più devastante. Questi attentati vengono definiti “ibridi” proprio perché si intravede nella predisposizione e nell’esecuzione un’altra mano oltre a quella dei mafiosi. Che questi stessi ambienti abbiano potuto interloquire con la mafia quando anch’essa ha adottato una sua strategia della tensione è un’ipotesi che ha un’oggettiva fondatezza.

C’è stato un connubio tra terroristi neri e Cosa nostra nell’uccisione di Piersanti Mattarella, colui che veniva considerato il continuatore di Aldo Moro e della sua strategia di alleanza con i comunisti, a partire dalla Sicilia? Gli atti giudiziari finora hanno negato questo forte convincimento di Giovanni Falcone. Se in quell’attentato furono coinvolti gli estremisti di destra è indubbio che l’autorizzazione ad eseguire un assassinio in Sicilia non poteva che venire direttamente dalla cupola di Cosa nostra; se ad ideare e realizzare l’assassinio del presidente della Sicilia furono (invece) solo i mafiosi, è indubbio che dovettero pesare altre valutazioni di carattere politico oltre che di carattere strettamente legato al ruolo di oppositore degli interessi mafiosi. Mattarella due anni dopo la morte di Moro voleva continuare la sua strategia di alleanza con i comunisti e ciò era insopportabile per diversi ambienti nazionali e internazionali. Chi lo uccise mise nel conto anche questo aspetto legato al suo pensiero politico.

Ma il legame più forte è stato ed è di ordine geopolitico, cioè la comune avversione verso il pericolo comunista che veniva declinato, certo, in maniera diversa, ma rappresentava comunque un comune sentire. La mafia legava il suo anticomunismo in maniera funzionale agli interessi della Dc, praticava insomma un filoatlantismo armato; gli eversori neofascisti, invece, al di là delle varie sigle in cui si dividevano, legavano l’avversione al comunismo non agli interessi della Dc ma più strettamente a quelli dei servizi segreti antibolscevichi che avevano ideato la strategia della tensione come antidoto permanente alla presa del potere per via elettorale del Partito comunista italiano. Nel sentirsi in guerra contro l’ordine costituito e contro i nemici rossi dell’Occidente, il terrorismo nero coinvolgeva e si faceva coinvolgere da ogni forma di potere occulto che si muovesse nella stessa direzione: massoneria deviata (la P2 di Licio Gelli), strutture armate residuali della guerra fredda (come Gladio), servizi segreti italiani, servizi segreti stranieri operanti in Italia. 

La mafia ha agito da sola nella sua strategia di delitti eccellenti e di attacco alle istituzioni?
Pur essendo le mafie strutture di potere autonome, è possibile immaginare collaborazioni, scambi continui di favori o addirittura convergenze di strategie attraverso delitti utili sì ai mafiosi ma che riscontravano l’interesse e l’approvazione anche di altri esponenti del mondo politico, finanziario o dei servizi segreti. In molte inchieste della magistratura, in diverse sentenze dei tribunali, in tante testimonianze di pentiti e in tanti libri di inchiesta, si fa esplicito riferimento a dei legami stabili tra mafie e massoneria (come abbiamo visto nella lettera M di questo alfabeto delle mafie) tra mafie e servizi segreti, tra mafie ed esponenti dell’estrema destra a partire dai falliti colpi di stato di Junio Valerio Borghese, del bancarottiere Michele Sindona, dai moti eversivi (già ricordati) di Reggio Calabria, dagli attentati a Falcone e a Borsellino o dalla scelta di compiere stragi fuori dalla Sicilia copiando la strategia della tensione tipica dell’alleanza tra terrorismo di destra e servizi segreti deviati. Ci sono alcuni eventi che, al di là di riscontri non sempre acquisiti in via definitiva dai magistrati, pongono interrogativi a cui finora non è stata data sul piano storico una risposta convincente. Proviamo a riguardare i delitti eccellenti di mafia (cioè, quelli non rivolti all’interno del mondo criminale) da un’altra angolazione.

Innanzitutto, essi presentano una singolarità: si ripresentano sulla scena siciliana solo a partire dal 1971, con l’uccisione del magistrato Pietro Scaglione a Palermo, a quasi 80 anni di distanza dall’ultimo delitto eccellente nell’isola, quello di Emanuele Notarbartolo nel 1893. Certo, c’erano stati numerosi delitti di sindaci, sindacalisti, assessori, imprenditori, commercianti, professionisti, ma dal 1971 in poi si scatenerà una vera e propria “guerra” ai rappresentanti delle istituzioni statali, a quelli in particolare che avevano deciso di combattere la mafia. Per quasi 80 anni neanche un delitto eccellente, e poi in un ventennio (1971-1992) se ne registrano tanti come in nessun altro paese occidentale. Infatti, in Europa non si è verificato nessun caso analogo di decapitazione dei vertici delle istituzioni rappresentative (magistrati, prefetture, partiti politici, forze di polizia) se non sotto il nazismo. E se tutto ciò è avvenuto a dispetto delle tradizionali modalità di operare della mafia fino a quel momento storico, è del tutto razionale pensare che si siano inserite (lungo questo cambiamento di percorso) componenti estranee alla mafia, dei soggetti esterni che hanno indirizzato le strategie mafiose verso obiettivi che prima non erano stati mai considerati come possibili. Ipotizzare questi legami, senza mettere in discussione l’autonomia della mafia, è cosa del tutto razionale. Questa ipotesi non è affatto una fissazione di fanatici e immaginifici descrittori di scenari fantapolitici, ma una più che ragionevole deduzione confrontata con i precedenti storici. Nello stesso periodo cominciano anche i delitti di magistrati da parte dei terroristi rossi e neri. Tra il 1971 e il 1992 vengono ammazzati dalle mafie 14 magistrati, mentre tra il 1976 e il 1980 ne vengono uccisi 10 dai terroristi rossi (Brigate rosse e Prima Linea) e 2 dai terroristi di estrema destra (Nar e Ordine Nuovo). Gli omicidi dei terroristi si concentrano in un periodo ristretto mentre quelli mafiosi abbracciano un arco di tempo un po' più lungo. Contemporaneamente vengono ammazzati anche  diversi  rappresentanti  delle forze dell’ordine sia dalle mafie sia dai terroristi, a seguito di scontri armati o in agguati individuali. Insomma, nel giro di pochi anni sia le mafie sia gli estremisti di destra sia quelli di sinistra danno vita al più massiccio assalto ai rappresentanti delle istituzioni di un paese occidentale. Comuni sono i bersagli, comuni le armi, comune il periodo storico.

Tuttavia, mentre l’assassinio di esponenti della magistratura e delle forze di sicurezza rappresentano una tradizione del terrorismo in ogni parte del mondo, bersagli emblematici per colpire “il cuore dello Stato” che i terroristi considerano il principale nemico, nella tradizione delle mafie italiane i magistrati e i poliziotti non erano stati mai oggetto di attentati fino al 1971. C’erano stati sì delitti eccellenti anche nell’Ottocento e nel periodo prefascista, ma mai di rappresentanti della giustizia e delle forze di sicurezza. La camorra e la ‘ndrangheta, a loro volta, non avevano commesso nessun delitto eccellente fino agli anni Settanta del Novecento e men che mai di magistrati. Erano stati colpiti sindacalisti, sindaci, presidenti di cooperative, segretari di sezione dei partiti di sinistra, ma mai rappresentanti delle istituzioni giudiziarie e di polizia. Esisteva un patto esplicito per garantire l’impunità ai mafiosi, che cioè giudici, poliziotti e carabinieri non dovevano essere toccati. E mentre i terroristi di destra e i mafiosi hanno colpito quei magistrati che specificamente avevano indagato sulle loro attività, i terroristi di sinistra colpivano i magistrati come emblemi dello Stato e non come singole persone che avevano ostacolato la loro attività.

Come mai si verifica questo cambio radicale di strategia delle mafie, in particolare di quella siciliana? Non si può dire che siano stati i corleonesi a cambiare l’atteggiamento “rispettoso” dei mafiosi verso gli uomini di legge, perché alcuni degli omicidi eccellenti all’inizio degli anni Ottanta non furono decisi dai corleonesi. Sicuramente ci sarà stata una reciproca influenza tra i metodi del terrorismo e quelli delle mafie, ma è indubbio che molti degli assassinati non erano nemici solo di terroristi e mafiosi, e  sicuramente qualche convergenza tra diversi poteri, legali e illegali, si è determinata nella individuazione delle vittime.

Anche nella scelta delle armi c’è un reciproco influenzarsi tra terrorismo e mafie, con l’uso di esplosivi e bombe in alcuni attentati che lasciano intravedere comuni rifornimenti. Ed è difficile immaginare che lo spostamento di esplosivi passi inosservato agli apparati di sicurezza. Quando negli anni Ottanta, con l’attentato a Chinnici, si usa l’esplosivo per la prima volta per un delitto eccellente, risultano già documentati casi di uso di bombe nelle faide tra clan di camorra e di ‘ndrangheta. Ed è del tutto evidente che l’uso degli esplosivi è una modalità d’azione delittuosa che le mafie copiano dal terrorismo dei neofascisti in combutta con i servizi segreti deviati. Perché i terroristi rossi usano il piombo delle pistole e dei mitra, mentre i terroristi neri il tritolo delle bombe.

A proposito, poi, di attentati con esplosivi a inermi cittadini, va ricordato che lo stragismo è quanto di più lontano dalla tradizione delle mafie italiane, una modalità d’azione in netta controtendenza con tutta la loro storia. Lo ricorda Falcone nell’intervista a Marcelle Padovani (Cose di Cosa nostra): le mafie non commettono mai delitti “inutili”, cioè non funzionali ai loro interessi immediati. La vittima è quasi sempre qualcuno che è diventato nemico, si è frapposto a un interesse materiale, si è rifiutato di pagare un’estorsione, e così via. Certo, esistono nella tradizione mafiosa delitti esemplari ma sempre attraverso la scelta di persone che si sono messe contro l’organizzazione e la cui uccisione deve servire da esempio per evitare ribellioni o tentativi di ostacolare gli interessi delle “famiglie”. Il fatto che improvvisamente la mafia scelga di commettere degli attentati non contro singoli nemici ma contro dei luoghi simbolo (chiese, musei, questure) e per giunta fuori dalla Sicilia (dove non poteva contare sulle stesse condizioni favorevoli del territorio isolano) è qualcosa che lascia legittimi dubbi sull’esclusività della mafia siciliana nell’escogitare tale strategia. Così come lascia tanti interrogativi il depistaggio clamoroso dopo l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta, a due mesi di distanza dalla strage di Capaci, inventando di sana pianta una pista investigativa con un falso pentito. Un depistaggio che fu guidato dai vertici della questura di Palermo dove il ruolo dei servizi segreti era molto attivo. Arnaldo La Barbera, questore allora in carica (morto nel 2002) era non solo un dirigente di polizia, ma anche un collaboratore dei servizi segreti, nome in codice Rutilius. Fu lui ad organizzare, secondo i magistrati di Caltanissetta il depistaggio, trasformando un balordo di borgata come Vincenzo Scarantino in un falso pentito che si autoaccusò di aver rubato l’auto in cui era stato piazzato l’esplosivo, indirizzando le indagini su di una pista sbagliata. Perché mai un Questore, collaboratore dei servizi segreti, avrebbe dovuto architettare quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia d’Italia? Perché era colluso con la mafia, secondo i pubblici ministeri di Caltanissetta. E poiché i servizi segreti deviati erano stati in grado di utilizzare le stragi neofasciste ai fini di stabilizzare con la paura il consenso al sistema politico vigente (e, in diversi casi, di collaborarvi con propri uomini) non è fantasioso immaginare che sia avvenuto lo stesso con la mafia corleonese. Lo scopo era identico: avviare una strategia stragista per creare una tale tensione da obbligare gli apparati dello Stato e i nuovi governanti a un rinnovato patto d’alleanza con Cosa nostra.

Insomma, la mafia non ha affatto una tradizione stragista alle spalle, né tantomeno l’ha avuta il terrorismo rosso. Questa modalità criminale in Italia è stata una prerogativa del terrorismo neofascista in alleanza con apparati deviati dello Stato. Quindi, se la mafia decide di adottare la strategia della tensione, di dare inizio, cioè, a un’opera di destabilizzazione per favorire un nuovo accordo con la classe dirigente post-prima repubblica, è molto probabile che siano stati stabiliti dei contatti con coloro che erano i massimi esperti di questa strategia, cioè uomini dei servizi segreti deviati e i terroristi di estrema destra.

Perché non si è potuto contare sui servizi segreti nella lotta alla mafia?
Lo Stato italiano nel contrastare la più lunga, originale e resistente forma criminale della sua storia, non ha potuto contare sull’apporto dei suoi servizi segreti, anzi. Se il ruolo dell’Intelligence è stato fondamentale nel ridimensionare negli Stati Uniti la mafia siculo-americana e in Francia quella corso-marsigliese, nel paese per antonomasia delle mafie, l’Italia, non c’è stato, per lungo tempo, nessun apporto significativo dei servizi segreti nel contrastarle, come se non venissero ritenute un pericolo per la sicurezza nazionale. Si tratta di un dato inoppugnabile. Lo Stato italiano ha combattuto menomato la lotta alle mafie, perché per varie ragioni alcuni suoi apparati erano schierati a sostegno dei suoi avversari o li lasciavano fare immaginando che la loro azione criminale potesse essere utile alla causa comune: impedire, cioè, che i comunisti legati alla nemica Unione Sovietica potessero conquistare con il voto la guida di un paese occidentale schierato con gli Usa. Ciò è avvenuto con il terrorismo neofascista ed è realistico pensare che sia avvenuto con i mafiosi. In ogni caso si è assistito al massacro di una intera classe dirigente antimafiosa senza che gli apparati dello Stato riuscissero a fare qualcosa di serio per impedirlo. Come si può immaginare che si organizzassero attentati di quelle proporzioni contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, o contro Il presidente della regione, Piersanti Mattarella, o contro il capo dell’opposizione, Pio La Torre, o contro il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, senza che i servizi segreti ne fossero a conoscenza o riuscissero a sventarne almeno uno di questi? No, non è possibile ragionevolmente pensarlo.

Cosa unisce, dunque, terrorismo neofascista e Cosa nostra? Un “comune sentire” è del tutto evidente nell’esaltazione della violenza come regolatrice delle relazioni umane e politiche e come levatrice della storia, così come li avvicina una “concezione guerriera della vita”. E soprattutto l’anticomunismo declinato in ogni modo, compreso l’uso degli attentati a persone comuni così da spegnere qualsiasi voglia di cambiamento nella società e nella politica. Si può parlare a ragione del terrorismo nero in Italia come “conservatorismo armato”. E ciò spiega l’atteggiamento “servente” verso i servizi segreti deviati e anche la convergenza con i mafiosi in alcuni frangenti storici.