CALABRIA. Ma Ad Africo si muore solo se lo dice il Corriere della Sera

CALABRIA. Ma Ad Africo si muore solo se lo dice il Corriere della Sera

BAfrico     di GIOACCHINO CRIACO - E l’Italia scopre che ad Africo, in una via di 200 mt, il tumore s’è portato via 30 persone. E senza l’articolo dei giorni scorsi, di Carlo Macrì, sul Corriere.it (che voglio qui pubblicamente ringraziare), nessuno saprebbe che il 10% della popolazione di Africo se n’è andata così, non per la consueta migrazione di lavoro, ma per un viaggio senza ritorno, portata in braccio all’eterno da quello che con pudore si chiama brutto male. Era accaduto così anche nel 48, quando l’Italia scoprì dalle immagini spietate di Tino Petrelli, in un reportage dell’Europeo, la disperazione di Africo, le condizioni miserabili del suo vivere e una mortalità infantile del 58%.                                                               

Il male è così, non esiste per il resto del mondo se non si materializza sulle pagine di un grande giornale, resta un fatto privato, locale al massimo. I morti di Africo, fino a qualche giorno fa, erano solo i nostri morti. Adesso tutti sanno dei 30 fantasmi della via Matteotti, e io per cinismo ve ne aggiungo gli altri, le centinaia di morti delle vie intorno. Le rughe di Africo ricostruite dallo Stato negli anni cinquanta in riva allo Jonio, in un putrido acquitrino a chilometri e anni di distanza da quell’Aspromonte che aveva custodito per millenni il vento di libeccio, che le aveva dato il nome. Minuscoli fortilizi, da accampamenti della Legione Straniera, brulicanti di vita speranzosa che il tempo ha reso disperata. La Matteotti, la Cesare Battisti, la Michelangelo, la Oberdan, l’Aurora, microcosmi carichi di sogni diventati, per ragioni plurime, incubi. Anch’io, dell’Aurora, sfoggio sul petto tanti morti quanto la Matteotti. Li ricordo tutti, dai vecchi che il male se lo covavano in pancia nel segreto assoluto, fino all’ultimo istante, alle madri che lasciavano i bimbi sull’uscio di casa per viaggi senza speranze, ai ragazzini che non potevano più partecipare ai giochi e se ne stavano in un angolo, o un balcone, a guardarci giocare.                                                                                   

E nonostante il fatalismo di cui soffriamo, domande ce ne siamo sempre poste, con viltà ci siamo sempre arresi davanti all’inesistenza di un interlocutore interessato, abbiamo lasciato che la vita ci trascinasse avanti accompagnati dal fardello dei lutti. Però ogni tanto lo sfoglio il fascicolo dei ricordi, mi reimmergo in quella polvere d’argento che ci costruivamo ai piedi sbriciolando le coperture d’eternit delle baracche di legno che la carità degli svedesi ci aveva portato al centro delle rughe. Me lo sento in gola l’odore amaro del fumo della discarica pubblica sull’orlo della fiumara che per anni ha popolato il sonno del paese, una nuvola immonda che entrava nel pantano su cui era sorta la nuova Africo e vi restava perenne, perché il libeccio era rimasto in montagna e lo zefiro spirava alto sul promontorio e la in basso nessuno ci veniva a soffiare il veleno da sotto il naso. Me lo ricordo l’amianto nei solai, imputridito dall’umidità che la sabbia di mare, usata per la costruzione, mischiata al poco cemento portava fino al soffitto, regalandoci pareti nere e broncopolmoniti.

Me li ricordo quei tempi, allora l’avvelenamento collettivo era libero, senza che ci fossero organizzazioni criminali necessarie a fare il lavoro sporco al servizio di un’industria rampante di stampo settentrionale. Eravamo profughi, come i disperati che oggi arrivano dall’Africa. Eravamo un dramma che veniva da lontano, da nascondere più che da risolvere. Quel nascondimento continua ancora e via Matteotti, e tante altre vie del Meridione, li raccolgono ancora oggi i frutti avvelenati del disinteresse nazionale e della nostra resa incondizionata a ogni tipo di criminalità, da quella dei palazzi, delle fabbriche, a quella della strada.

*Foto di Tino Petrelli per reportage sull'Europeo, 1948