di CONSOLATO MINNITI* - Tutti incandidabili, o quasi. La Corte d'appello di Reggio Calabria ha sciolto la riserva per sette politici su otto che già in primo grado erano stati ritenuti incandidabili, a seguito dello scioglimento del consiglio comunale per contiguità mafiose. I giudici di piazza Castello hanno confermato il provvedimento e rigettato i ricorsi per Giuseppe Plutino, Seby Vecchio, Luigi Tuccio, Walter Curatola, Giuseppe Eraclini e Giuseppe Martorano. Solo qualche settimana fa, analoga decisione era stata assunta per Pasquale Morisani.
Rimane da definire, invece, la posizione dell'ex sindaco Demetrio Arena, la cui posizione era già stata stralciata. Con questa decisione da parte della corte d'appello, la posizione dei politici si fa sempre più precaria e delicata. Per loro, infatti, non rimarrà che il ricorso in Cassazione, prima di diventare definitivamente incandidabili e non poter partecipare alle prossime elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento dell'amministrazione comunale reggina.
IL CASO VECCHIO
Una delle storie più controverse, venute fuori all'indomani dello scioglimento del Comune per mafia, è stata senza dubbio quella dell'ex presidente del Consiglio, Sebastiano Vecchio. La sua posizione era tra quelle più complesse, perché egli — poliziotto di professione — era finito nel mirino della commissione d'accesso soprattutto a causa della sua partecipazione ai funerali del boss Domenico Serraino.
A giudizio della difesa di Vecchio, rappresentata dall'avvocato Giovanni De Stefano, quella partecipazione non avrebbe avuto alcuna connessione con le vicende che hanno dato luogo allo scioglimento, «né prova alcun collegamento con la cosca Serraino». Ed ancora che «la partecipazione al funerale di un consigliere comunale può essere eticamente censurabile, ma va interpretato alla luce dei trascorsi da poliziotto del Vecchio». Si sottolineava nell'appello che Vecchio non era stato mai sottoposto a procedimento penale, né disciplinare e la sua partecipazione alle esequie del boss era motivata solo dalla sua residenza nel quartiere di San Sperato, dove era nato e cresciuto, e quella presenza era collega piuttosto a motivi di servizio.
Per i giudici di piazza Castello, però, questi motivi non sono fondati. «Anzitutto — si legge nella sentenza — non può non rilevarsi che proprio perché conosciuto dagli abitanti del quartiere, la sua presenza non poteva passare inosservata, specie in una circostanza così speciale (non si trattava del funerale di un qualsiasi abitante del quartiere, ma del capo della cosca locale) ed in un contesto così particolare (trattavasi che funerali cui il questore aveva negato alcuna dimensione pubblica).
Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto da Vecchio, la sua partecipazione è stata vista come quella di un poliziotto, al momento consigliere comunale ed, addirittura, presidente del consiglio comunale che rende pubblico cordoglio al locale boss: perché di questo trattasi, in quanto la presenza ad un funerale significa socialmente soltanto questo, cordoglio, cioè vicinanza alla famiglia dello scomparso.
Neppure regge la giustificazione che vorrebbe dare della sua presenza Vecchio, adducendo generiche motivazioni legate alla sua qualifica di poliziotto: all'epoca Vecchio non era in servizio attivo a causa della sua attività politica consiliare, non era stato (né avrebbe potuto essere) incaricato di un qualsiasi ambito operativo. La sua presenza al funerale, dunque, è il frutto di una deliberata scelta di Vecchio, scelta che agli occhi dell'opinione pubblica suona come la presenza di un politico di rilievo che sfidando i divieti del questore (tra l'altro, suo superiore in quanto poliziotto) attesta la sua vicinanza alla famiglia del boss scomparso.Trattasi – concludono i giudici - di un comportamento grave perché "attesta" pubblicamente una situazione di vicinanza e, dunque, di collusione delle istituzioni, da Vecchio all'epoca del fatto rappresentate, con la famiglia Serraino. E evidente che un simile comportamento ha concorso ad ingenerare una immagine delle istituzioni locali condizionate dalla criminalità».
Motivazioni contestate dall'avvocato De Stefano che ha già annunciato ricorso in Cassazione.
*giornalista dell'Ora della Calabria