di ANTONIO CALABRÒ - A Reggio è Capodanno. La città vista dall’alto allo scoccare della mezzanotte è una selva ininterrotta di fuochi, di luci, di lampi e di spari. Miriadi di razzi salgono verso il cielo buio per esplodere, tramutandosi in tracce di luci colorate che s’intrecciano e s’aggrovigliano mentre sotto migliaia di botti assordano. Sovrapponendosi, ingigantendosi
come in un sostegno sonoro reciproco che culmina in un tremore di fondo colossale e quasi sovrumano. Una parvenza di Etna cittadina, una guerriglia in un pugno, le scintille del laboratorio di Efesto nell’uscio di casa. Il fuoco di Prometeo. E il boato costante di milioni di scoppi simultanei.
Felicità e furore. O forse felicità è furore. Spari alla mezzanotte, dai fuoco alle brutture dell’anno passato, ti prepari con il cuore gonfio di speranza ad affrontare il nuovo, e in un fulmini i ricordi ti svolazzano davanti e poi svaniscono. E si festeggia, allora.
Esci per la città. E incroci la solita umanità traviata dalla gioia. Barcollante per l’emozione di fine turno. Grassamente ridanciana, magari per via di qualche additivo chimico. Scegli la via del gruppo di amici auto organizzati. Un balletto sulla disco andante, per pance cadenti con cenni nostalgici di discoteche eroiche, per antiche principesse di studi 54 risorte per l’occasione alla loro santità di ballerine magnetiche.
I soliti reggini, auguri, tanti baci e i commenti sul cenone. E le mogli complici che criticano la voracità del marito e del figlio minore. E i mariti che osannano la squisitezza del dentice imperiale, che come lo fa mia moglie neanche a masterchef. E quelle felicità vaghe, chiunque incontri, perché la notte del 31 Dicembre ti gioca questo scherzo, ricollega a tutti i 31 Dicembre passati, è come l’apertura di uno schedario.
Ma poi festeggiamo. Balliamo, scherziamo, sorridiamo. Non si fuma, ci sono i bambini. Bene, certo.
Come in tutti i luoghi pubblici, fuori si forma la succursale dei sakem. Uomini e donne, intabarrati in giacche e giubbotto e cappelli e sciarpe con il fiato di fumo, per il freddo e per le Camel. Andiamo a fumare, pare sia anche diventata una potente innovazione in materia di seduzione. Se entrambi fumano, naturalmente.
Usciamo a fumare, con gli amici. Una battuta. Il ricordo di quello, la battuta dell’altra. C’è allegria, è normale, è capodanno, mica la guerra. Lontano continuano a scoppiare petardi e botti, sempre più isolati e sporadici. Ogni tanto qualche isolata bomba-carta scuote le fondamenta, ma non ci facciamo caso.
Fumiamo e chiacchieriamo. Passa un’automobile a lenta andatura. Con la musica alta. Quel genere devastante da discoteca contemporanea. Dal finestrino posteriore di destra una mano brandisce una pistola automatica, nera e grossa. La punta verso il cielo e spara. Poi, sempre tenendo l’arma bene in vista, con l’altra mano spinge il carrello indietro, e ricarica l’arma, proprio come fa Bruce Willis nei film.
Solo che non era un film. Era vero. Ci siamo guardati in faccia straniti. Ma quello ha una pistola, ha chiesto la mia amica con un volto da crollo di una diga . Incredibile. Soliti commenti del caso. Incredulità e sgomento. Ma tu hai visto bene. Certo che ho visto. Ma forse era finta. Una pistola finta. E che cambia ? Niente. Appunto, non era finta. E il botto era vero.
Adesso in un posto come Dodge City, magari nel 1875 e subito dopo l’arrivo di una mandria con la sua scorta di cow-boy ubriaconi e pistoleri, una scena simile sarebbe plausibile e anche giustificata.
Ma a Reggio Calabria ? In una città dell’evoluto mondo occidentale queste manifestazioni di stampo Sudanese dovrebbero essere inimmaginabili. Ma non perché proibite. Ma perché scomparse dal costume arcaico che hanno le popolazioni abituate ad avere un contatto quotidiano con le portatrici di morte.
Se invece quaggiù, accanto a noi civili fumatori esposti al gelo della notte dell’ultimo dell’anno per non disturbare con i nostri vapori chi respira solo ossigeno e aria viziata, se accanto a noi sfilano impunemente seguaci di Zapata e Pancho Villa, che con le loro calibro 45 sparano allegramente verso il cielo, allora c’è più di qualcosa che non va.
O è un germe, un bacillo infettivo con la faccia di Clint Eastwood che trasforma le persone in cow-boy di Dodge-city. Oppure è una brillante trovata dell’ufficio turismo, che nelle notti animate sguinzaglia pattuglie di attori che si fingono pistoleri.
Perché Reggio è composta da pistoleri, sognatori e romantici. Solo che i primi tirano di più.
Buon Duemilaquattordici, Reggio.