REGGIO. Bruno, quando la morte ghiaccia la giovinezza

REGGIO. Bruno, quando la morte ghiaccia la giovinezza

sol      di ANTONIO CALABRO' - Un giovane ha lasciato la macchina nella corsia opposta e poi si è lanciato nel vuoto saltando dal viadotto di Pentimele. Si chiamava Bruno M. e aveva 22 anni.

Una notizia così, senza sapere nient’altro, senza neanche voler sapere nient’altro, sgomenta, impaurisce, devasta la nostra tranquillità quotidiana, sconquassa le certezze, ferisce come una tortura prolungata.

Tutti i perché del mondo si riassumono in un attimo. Nessuna domanda basta, nessuna risposta vale.

Ragionare al buio è solo un modo per cercare conforto. Ma non c’è risposta che tenga, non ci sarà pace, non ci sarà sollievo, non ci sarà ragione bastante a placare questo dolore feroce, questo strazio immane, questa paura che invade la nostra stabilità. Una vita terminata per scelta in un volo di fronte ad un paesaggio da fiaba, in una giornata con il cielo bello come una festa, e tutto il terribile fragore della morte che rimbomba schiantando la nostra indifferenza.

L’era dei suicidi generalizzati. Delle vite perdute illuse di riscattarsi riscattate in un salto nel vuoto alla ricerca dell’abisso. L’era del senso d’inutilità irradiato dai potentissimi generatori di moventi, che assumono di volta in volta sembianze familiari: la cara vecchia televisione, i cellulari ultimo modello per agganciarsi alla realtà, il web e i suoi stravizi e le sue virtù, la tenerezza della gioventù da consumare al più presto.

La malattia del nuovo millennio si chiama solitudine. Non parlo di Bruno. E neanche della solitudine intesa come restar soli senza neanche un prete per chiacchierare. E neanche del disagio giovanile che da Jacopo Ortis ad oggi ha mietuto più vittime di una guerra. E nemmeno degli strapazzi esistenziali di un ragazzo contemporaneo che tra l’altro sono più violenti e furiosi di quelli di ogni generazione precedente.

Questa nuova malattia, spesso mortale, è la solitudine indotta da un sistema costruito sull’esaltazione dell’ego. Da un metodo, funzionale certamente ai potentati economici, che schiaccia, comprime, e costringe ciascuno di noi a cercare la ricetta per la felicità in una bolla d’aria. La felicità a pagamento nelle rivendite di articoli da consumo. E, con questa idea in tasca, accettare la dissoluzione dell’essere e la polverizzazione della propria individualità, come un passaggio obbligato, come la via somma della realizzazione, come il principio base della ricerca - celata, ma sempre costante- di quell’infinito a cui anche il più ateo degli uomini anela.

Senza concordia, senza comprensione, la guerra stretta in pugno, sempre pronti a battagliare per affermarsi in questa competizione assurda che è diventata la vita. Se non sei il migliore non sei nessuno. Non accettare la propria piccolezza come quel dono che è, e competere con le costellazioni. La comunità che da corpo unico, solido e comunque rassicurante, diventa magma fuso e incandescente. Brucia, dilania, uccide.

Tutti i suicidi di questi anni, motivati dalla mancanza di denaro, dal bullismo, dall’emarginazione, sono in realtà i frutti avvelenati di questa coltura in serie di uomini-lavoratori-consumatori . Smarrirsi nelle frottole del paradigma e cercare il futuro dove futuro non c’è conduce a questo. Alla più profonda, nera, disperata e mortale solitudine.

E tutto ciò accade mentre la felicità è a un passo da noi. Ed è, come tutto ciò che ha valore, totalmente gratuita. La felicità è sentirsi vivi, correre, cantare, nuotare, ballare e fare l’amore. Il resto è secondario,
inutile, indotto. Eppure appare come importante, definitivo, sacro.

E quando vedi tutti che accettano questa falsa sacralità a cui tu non puoi aspirare, quando vedi il tuo futuro privo di speranze, senza gioia e senza amore, sei già vittima della malattia, non puoi sfuggirgli, ti senti l’ultimo dei dannati, e il giorno azzurro di Febbraio di fronte ad uno Stretto bello come un Dio, non significa più nulla.

Sfuggire alla solitudine, cercare la concordia, riappropriarsi della speranza. Queste sono le medicine per combattere il male. Tutto il resto è panacea, illusione e inganno spesso, maledizione, letale.

Antonio Calabrò