GIUSEPPE OCCHIATO: la briscola dalla bettola alla letteratura

GIUSEPPE OCCHIATO: la briscola dalla bettola alla letteratura

Poteva sfidarlo a qualunque  gioco col libro delle quaranta pagine, a briscola, a scopa, a pizzichino, ... se voleva, o gli faceva il mazzone o gli teneva  nascosti i carichi grossi, a seconda dei casi (Oga Magoga, p. 864)

«Briscola», forse derivata dal francese «briser» - «brisque», «nel parlare volgare dell'Italia media vale "botta, colpo, bastonatura"; e tale è il valore etimologico della parola" (A.Panzini, cit. in GDLI; vol. II, ad vocem «Briscola»).

E che l'etimologia sia quella panziniana lo prova l'ordine perentorio, «Mmàzzala!» che circolava spesso  nelle bettole calabresi e che invitava ad uccidere la briscola passata dall'avversario.

Interessante anche la comunicazione di un bracciante calabrese nel pomeriggio dell'11 settembre 2001: «La pigghiaru la briscula li mericani!».

Il gioco ha prodotto modi di dire che sono entrati nel linguaggio comune.   

«Essere come il due di coppe quando comanda bastoni!», cioè non valere nulla, è una trasposizione dal gioco all'antropologia e si fonda sul fatto il due è la carta più piccola e, se non appartiene al seme della briscola, vale da zero in giù in quanto non può effettuare presa alcuna.

   Esistono altre espressioni che «colorano» il gioco: un giocatore, che notoriamente ha buone disponibilità economiche, potrà gettare una carta di denari e, per antifrasi, dichiarare: «dinari // ndaju picca e l'aju a dari!» (Denari, // ne ho pochi e li devo anche dare ai miei creditori!»); un altro, che magari ha vissuto pericolosamente, getterà sul boffettino una carte di spade e dirà: «Spade // contro il nemico!»; un giocatore che è di mano (cioè gioca per primo) butta sul tavolo una carta di coppe e, se gli avversari non prendono, può ben dìre a mero titolo di augurio, «Coppe franca // partita vinta!»

   Occhiato sceglie questa espressione in apertura del romanzo. Don Rocco Marafioti, un fascista che ha cercato vanamente di trarre da Mata Fara  informazioni sui militari di passaggio, le raccomanda di non alloggiare mai disertori; lei gli risponde a tono in un dialogo di rara bellezza linguistica:

   «Tranquilla sono, e coppe franca ho, don Rocco!»
   «Si, coppe franca e partita vinta»  ammise con voce agretta l'altro… «… lo conoscete davvero il gioco della briscola, e pure delle tre carte, ve lo debbo riconoscere, e giocastìvo bene, da mastra e maestra. Ma non è detto che si deve vincere  sempre, non so se mi spiego … »
   «E che volete don Mimmo, pazienza ci vuole alle burrasche / che non si mangia miele senza mosche. Certe volte la carta puttana si innamora del fesso, sapete … »

Mata Fara cita un proverbio a riga, entrambi versione italiana (fiorentina) di modi di dire dialettale siciliani anch'esso molto coloriti: «Pacenza nci voli a li burraschi // chi non si mangia meli senza muschi!» fu usato anche come distico in alcune canzoni (Rosa Balistreri, Rari e inediti.TDS, Palermo 1997); il secondo, «a carta si nnamura d'u fissa», e la scusa del perdente qui usato anti frasticamente.
       
  Da chiarire che il gioco delle tre carte, in calabrese «carticella vinci», di cui discorre il fascista si praticava nelle fiere dove venivano coinvolti, con il trucco della «spalla», i sempliciotti che ci rimettevano fior di quattrini: il prestigiatore sceglieva tre carte uguali ma di semi diversi (ad esempio tre re) e, mostrandole al pubblico, diceva: «Re di mazze è la carticella che vince!»; poi, facendole roteare, le disponeva coperte sul tavolo una a fianco dell'altra; chi partecipa poggia la posta vicino alla carta che lui ritiene essere il re di mazze e il banchista le scopre.
  Chi  indovinava la carta convenuta riceveva l'equivalente della posta e chi no ci rimetteva la puntata.

  Giuseppe Occhiato in «Oga Magoga» parla così del gioco: la Morte Damazza  «poteva anche armargli (a Rizieri) pure il gioco dei tre cavalli» (p. 864); e si noti pure il verbo «armare» riferito al gioco con l'annessa similitudine di questo con la guerra.

  La briscola si gioca per lo più a coppie fisse disposte sui lati contrapposti del tavolo quadrato.
  Le regole sono relativamente semplici: il «cartaro» distribuisce tre carte per ogni giocatore e poi scopre la tredicesima che viene posta sotto il mazzo e stabilisce il seme che comanda.
  Prima che si scopra la briscola i partecipanti possono scegliere una carta tra quelle che hanno in mano e mostrarla al compagno come «signu»  o «nsinga», come segno convenuto rispetto al quale si possono comunicare le briscole di cui si dispone.
  Sicché se la «nsinga» è il re e il giocatore ha in mano l'asso dirà al compagno  «Nchianu dui d'a nsinga!», cioè «Sono due scalini sopra il segno che ci siamo fatti!» Infatti, dopo il re, le carte più importanti sono due (il tre e l'asso).
  Se invece la briscola di cui dispone è la «donna» (il fante delle carte piacentine) la comunicazione sarà: «Scindu dui!», dato che la donna si trova sotto il re di due scalini.
  Se invece il giocatore significante ha una briscola che si trova sopra la «nsinga» di un solo gradino dirà: «Mi rimovu!», cioè sono appena sopra il segno, me ne scosto appena.
  Se il segno è l'asso e il richiesto non ha briscola allora dirà che «Nchianu uno o dui!» e il richiedente capirà; infatti nel gioco non esiste alcuna carta superiore all'asso.

Interessante un modo di dire che deriva dal sistema della «nsinga» e che è transponibile anche in altri ambiti della vita quotidiana.
  Se un commerciante vende poca merce, e viene interrogato da un interlocutore impiccione che gli chiede:«Come andiamo con gli affari?», risponderà con una risposta che ai non calabresi sembrerà sibillina: « E comu jamu? Nchianu unu, scindu dui, mi rimovu e sugnu ccà!».
  Un calabrese che sente la stessa risposta capirà invece che le cose non vanno a gonfie vele e che, se in una occasione gli incassi superano di poco le spese («nchianu unu»), nell'altra sono inferiori («scindu dui») e che i progressi non sono costanti sicché il bilancio deve considerarsi in sostanziale pareggio («mi rimovu e sugnu ccà»).

  Lo stesso si dirà se il discorso riguarda una malattia oppure il rendimento scolastico di un ragazzo; insomma «nchianu unu e scindu ddui, mi rimovu e sugnu ccà» è segno di staticità, di progressi non risolutivi e di peggioramenti limitati, di sostanziale stallo; il dialetto universalizza un paradigma di gioco e lo applica ad analoghi   avvenimenti della vita.

  Il sistema della «nsinga» può essere scoperto facilmente.
  Molti giocatori preferiscono ai segni con le carte un altro sistema in cui si attivano  espressioni del viso che, se fatti senza che se ne accorgano gli avversari, garantiscono celerità e discrezione alla comunicazione.
  Le mosse più significative sono le seguenti: un lieve arricciamento del naso per la detenzione dell'asso di briscola, una strizzatina d'occhio per la detenzione del tre, un lieve rigonfiamento delle gote per il re, un allargamento appena percettibile dell'angolo della bocca per il cavallo e un passaggio della lingua fra le labbra per la donna.

  Interessante è la pratica di alcuni giocatori nel «rifornimento» che fanno dal mazzo dopo una giocata: mentre molti briscolisti improvvisati prendono la carta dai due lati minori con l'indice e il medio della mano sinistra e con il pollice opposto e la guardano subito, il giocatore incarnato la sfila con l'indice e il pollice dal mazzo, la poggia sulla carta di briscola in una sorta di bacio beneaugurante e poi, postala dietro le due che gli erano rimaste in mano, la tira su a poco a poco fino a scoprire se è del seme della briscola e se è delle più alte.

  In Calabria questa pratica ha generato il modo di dire «Tirari li ricchi a Marcu» perché il tirante, nel far scorrere la carta ignota sotto le due note, la smuove verso l'alto ora da un lato ora dall'altro, come se volesse appunto tirare alternativamente le orecchie ad una persona.

  Il senso del detto si è dunque spostato da un gioco particolare (la briscola) al gioco delle carte in genere onde, se si chiede a qualcuno, che ha giocato un pomeriggio intero a carte, cosa abbia fatto il quel dato tempo lui risponderà con noncuranza:«E chi fici? Nci tirai li ricchi a Marcu!»
  In dialetto napoletano «tirari li ricchi a Marcu» si rende con il verbo «trezzià» che deriva dall'«antico francese tercier-trecier- treccier- trezzier- trezzià che vale appunto "ingannare", così come accade -…- con il movimento dello spizzicare … che sortisce una specie di inganno (con crescente emozione) dell'occhio del giocatore fino a quando, scoprendo bene il margine della carta spizzicata, egli non abbia contezza del suo reale valore» (Raffaele Bracale, sul Blog «Brak» del 15 gennaio 2014)

  È convinzione di molti giocatori di briscola che a questo gioco occorre sempre prendere, anche quando le carte sul tavolo non sono appetibili per i punti che rappresentano: «Bricula, pigghia e pisca!» è il loro motto e presume che chi prende ha più chances di «pescare» briscole.

  Capita a volte che il giocatore che è «di mano» viene richiesto dal compagno di giocare «una brisculeddha … pe' manteniri la jocata»; il primo avversario, magari perché ne ha tre in mano, butta un carico e il richiedente è costretto a «calare» una briscola più grande di quella calata dal suo compagno per evitare che quel carico vada ad impinguare il carniere degli avversari; sicché, avendo la coppia sprecato due briscole, potrà risuonare tra i giocatori o il pubblico un commento di questo tipo: «Cu supera lu cunpagnu // non faci guadagnu!»

  Occorre infine considerare che la partita a briscola si può giocare nell'arco di tre raggi o di due: nel primo caso si aggiudica la partita chi faceva 61 punti o di più nell'arco di due raggi su tre, nel secondo caso vince chi faceva 121 punti o di più nei due raggi.
  Nel primo caso raggiunti 61 punti il raggio era considerato chiuso mentre nel secondo una parte, anche se faceva  cinquanta punti su 121, poteva pensare di rifarsi nella mano successiva.

  A Mileto, a leggere OM, si giocava al meglio dei tre raggi: «Era come al gioco della briscola in cui si fanno tre raggi, e i tre raggi rappresentano una sola partita» (461); e forse vi si giocava anche la briscola a carte scoperte (briscola aperta?)  come si evince da un altro passo del libro: una proroga che la Grandama si divertiva a concedergli, che quella era una sua maniera di giocare con lui, come ad una partita di briscola aperta tra lei e lui, e lei ogni tanto, ma solo per tirarla alla lunga, solo per allungare il piacere suo, gli faceva vincere un raggio anche a lui e si scialava a tenerlo così sulla corda,, col fiato sospeso …  (518)