Quando si parla del rapporto stretto tra questione meridionale e questione mafiosa si dice una cosa ovvia e al tempo stesso si manifesta un possibile pregiudizio, che cioè le mafie sono solo il frutto della storia locale del Mezzogiorno, della sua arretratezza economica e sociale, della mentalità dei suoi abitanti, dell’esclusiva corresponsabilità delle sue classi dirigenti nel loro successo; in fondo le stesse analisi, gli stessi giudizi e pregiudizi che hanno accompagnato la questione meridionale dentro la storia nazionale. Queste interpretazioni rappresentano un formidabile ostacolo alla comprensione delle mafie e, nella migliore delle ipotesi, un colossale abbaglio. Interpretazioni che non sanno dirci niente di fronte all’incalzare dei fatti che ci squadernano mafie a loro agio in un Centro-Nord dell’Italia ricco e dinamico, culturalmente avanzato e civilmente progredito, il contrario di un Mezzogiorno che si voleva e si vuole strutturalmente e ancestralmente mafioso.
Se sul serio l’obiettivo è quello di capire il perché del così lungo successo delle mafie, bisogna riandare alla storia nazionale e non solo a quella meridionale, al modo in cui è stato integrato il Sud nel contesto del nuovo Stato sorto nel 1861, al modo in cui sono state utilizzate nella storia nazionale le classi dirigenti meridionali legate alle mafie, al modo in cui le mafie sono state utilizzate per garantire quella continuità e quel consenso ai nuovi governanti che veniva garantito con la violenza a quelli precedenti. Il fenomeno mafioso è espressione di questa lunga continuità storica tra modi di governare del prima e dopo l’Unità d’Italia che ha caratterizzato la storia patria. Le mafie potevano essere ridotte a fenomeni del vecchio regime e combattute come espressione del passato che non si voleva più presente nel nuovo Stato e invece al posto di essere sconfitte ed eliminate sono state integrate nel nuovo sistema di potere. È la storia d’Italia che ci spiega il successo delle mafie anche dopo il 1861 e non solo la storia meridionale sotto il regno dei Borbone.
Sul piano storico è indubbio il nesso consequenziale tra Mezzogiorno e mafie. Le tre principali mafie italiane si sono sviluppate nel Sud d’Italia ed erano presenti in quella realtà già prima dell’Unità della nazione, mentre la quarta si è affermata negli ultimi decenni in un altro territorio meridionale, la Puglia. L’origine delle mafie è da collocare, quindi, senza alcun dubbio nel territorio governato dai Borbone fino al settembre del 1860, cioè nel Regno delle Due Sicilie. Negli altri 6 Stati che confluiranno nel Regno
d’Italia esistevano variegate forme criminali ma nessuna di esse poteva essere qualificata di tipo mafioso. È stato il Sud, dunque, il luogo di produzione delle mafie.
Ma questa indiscutibile constatazione storica ha bisogno di qualche precisazione. Il problema mafioso non è affatto originato da una presunta e specifica mentalità delle popolazioni meridionali o da condizioni di arretratezza economica e civile. Una diretta conseguenzialità di queste motivazioni nelle origini delle mafie è estremamente complicata da dimostrare. Ad esempio, se le mafie sono un prodotto della mentalità delle popolazioni male amministrate dai Borbone, come mai fenomeni simili non si sono prodotti in tutti i territori appartenenti al Regno delle Due Sicilie ma solo in alcuni? E ancora, se come molti credono le mafie sono un problema essenzialmente legato all’ arretratezza economica del Sud
dell’epoca come mai non si sono originate mafie in Abruzzo, in Molise e Basilicata, che erano territori ancora più poveri e arretrati di quelli in cui si sono prodotte? E all’interno delle tre regioni più interessate come mai in alcune aree di quei territori non si è radicata una presenza mafiosa (almeno fino a qualche decennio fa) come nel Cilento e nel Beneventano in Campania? O in provincia di Cosenza e in parte in quella di Catanzaro in Calabria? O nelle province di Messina, Siracusa e Ragusa in Sicilia, almeno fino alla seconda metà del Novecento? E perché in Puglia una presenza mafiosa si è presentata solo negli anni Ottanta del Novecento e non prima e solo in alcune specifiche zone? E perché mai il banditismo sardo, che sembrava una forma originale di criminalità con aspetti mafiosi, è quasi del tutto scomparso negli ultimi decenni mentre nello stesso periodo di tempo si allargava la presenza mafiosa in altre regioni prima non coinvolte, comprese quelle centro-settentrionali? Da ricordare che la Sardegna non era parte del regno borbonico ma di quello sabaudo ed era dal punto di vista economico ancora più arretrato di molte altre regioni meridionali. Se le mafie sono una diretta conseguenza della mentalità siciliana, calabrese, campana o meridionale, perché mai la sua presenza non è omogenea in tutto il Mezzogiorno?
I contadini paria della storia
Partiamo dalle condizioni dei contadini meridionali. In verità i contadini sono stati per secoli i paria della storia, non solo nel Sud, non solo in Italia, non solo in Europa. Ignazio Silone racconta in Fontamara della disperazione e della vita animalesca a cui sono sottoposti i contadini abruzzesi: “Fontamara somiglia, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori dalle vie di traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri… Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin, i coolies, i peones, i mugic, i cafoni, si somigliano in tutti i Paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure, non si sono visti due poveri in tutto identici”. Nelle campagne abruzzesi ci fu ribellione ma non si è sviluppata mafia. Nelle colline e nelle montagne della Basilicata interna, che per secoli hanno visto le azioni di massa dei briganti, non si è sviluppata una criminalità di tipo mafioso. Neanche il Molise ha sviluppato mafie. E neanche le aree della Campania interna, quelle definite “dell’osso” da Manlio Rossi-Doria, hanno dato origine a fenomeni mafiosi come quelli camorristici della pianura (la cosiddetta “polpa”) se non negli ultimi decenni. Se dunque per alcuni studiosi è l’arretratezza delle campagne e l'anacronismo del latifondo ad aver determinato la nascita del fenomeno mafioso, perché si è sviluppato solo in Sicilia, in Campania e in Calabria, e non nell’Abruzzo di Silone o nella Basilicata di Scotellaro? C’è stata e c’è miseria senza mafie, c’è stato banditismo e brigantaggio senza mafie, c’è stato anche latifondo senza mafie. Le mafie non sono una conseguenza inevitabile di miseria, latifondo, arretratezza e ribellione. Il brigantaggio, invece, sì.
Il brigantaggio sembra essere più presente nelle zone dei contadini senza terra, mentre le mafie appartengono alle zone di proprietà spezzettata e di agricoltura ricca e non rivolta all’autoconsumo.
Il binomio tanto affermato e reiterato tra mafia e arretratezza non regge, dunque, a una seria disamina storica. Infatti, come hanno potuto le mafie, se nate dell’arretratezza economica, diventare partecipi della storia economica e politica degli Usa, cioè insediarsi con successo nel cuore del capitalismo del Novecento, e di altre “grandi” nazioni all’inizio di questo secolo? O come hanno potuto convivere in Giappone con lo sviluppo di una delle economie più dinamiche dell’ultimo secolo? O a Marsiglia, il porto più importante e ricco della Francia? E se esse esprimono una “mentalità arretrata” come mai stanno conquistando negli ultimi anni ampi spazi in territori del Centro-Nord dell’Italia caratterizzati da forti tradizioni civiche?
La storiografia più recente ha evidenziato che le tre principali formazioni mafiose erano presenti, oltre che nelle aree di degrado sociale, anche nei territori di forte dinamicità economica e di relativa ricchezza, rapportata naturalmente al periodo storico e all’area geografica considerata. La camorra era regina a Napoli, grande metropoli e capitale del Regno, città piena di degrado e al tempo stesso di grandi opportunità, ma anche nelle cittadine di provincia dei territori agricoli più ricchi e fertili dell’intero
Mezzogiorno, a partire dalla provincia di Caserta (dove si svilupperà poi il clan dei Casalesi). L’insediamento storico della camorra non di Napoli città si collocava in un raggio di 40 chilometri attorno alla capitale, nella cosiddetta “Campania Felix”, caratterizzata da una delle agricolture più ricche e produttive d’Italia. La mafia siciliana era presente oltre che nel latifondo e nelle zolfare anche nella “conca d’oro” dove, come ci ha dimostrato lo storico Salvatore Lupo, potenti mafiosi avevano in fitto o in
proprietà i giardini di agrumi e i fondi rustici attorno a Palermo, da dove già nella seconda metà dell’Ottocento si esportavano merci agricole sul mercato nazionale e internazionale. E proprio sulle rotte dell’emigrazione e delle esportazioni che si ramifica la mafia negli Stati Uniti. La ’ndrangheta era fiorente a Reggio Calabria e attorno all’area commerciale di Palmi e di Gioia Tauro ricca di olive e di agrumi. E la
sacra corona unita si è insediata, poi, in alcune delle province più ricche della Puglia e dell’intero Mezzogiorno. Caratteristica dei fenomeni mafiosi è quella di riguardare città portuali o zone al centro di intensi scambi commerciali di prodotti agricoli e di animali.
La miseria è da contemplare tra le cause di ogni criminalità, ma non ne è la molla più importante quando parliamo di mafie. Scriveva don Sturzo: “Si dice che la mafia sia un fenomeno di povertà e di condizioni economiche arretrate. Ma se fosse così cosa andrebbero a fare i mafiosi nelle campagne nella distribuzione delle acque per irrigare; nella vendita dei terreni; nei mercati di carne e di verdure; nei traffici nei porti; negli appalti di grosse opere pubbliche; nelle anticamere delle prefetture e dei municipi, o anche a venire dai ministeri a Roma?” La criminalità mafiosa è una forma di ascesa sociale, non di ribellione alla miseria, ha a che fare con la circolazione della ricchezza non con la povertà. In genere sono le zone più dinamiche, anche se all’interno di aree non pienamente sviluppate, che offrono occasioni di riuscita e di impiego dei violenti.
Come mai le mafie meridionali si sono inserite così bene nella storia della nazione?
È indubbio che fin dall’indomani dell’Italia unita le mafie furono accettate o tollerate come necessaria continuità con uno degli stati preunitari dalla classe dirigente della nuova nazione. Fu un caso di realismo politico di cui non si intravedevano allora le conseguenze? Fu un tentativo di integrare nella base sociale ristretta della nuova nazione forme di violenza a grande consenso popolare? O più semplicemente si trattò di un caso di alleanza politica con gli agrari meridionali accettando in cambio del loro consenso tutte le conseguenze che ciò comportava, compresi gli arretratissimi rapporti feudali e il sostegno delle mafie, per tenere a bada le giuste rivendicazioni contadine? O il bisogno di utilizzare forze extralegali per
mantenere l’ordine pubblico in realtà dove ciò non si riteneva possibile senza un apporto di una parte dello stesso mondo criminale? O si mischiarono tutti questi fattori insieme? Sta di fatto che dopo l’Unità
d’Italia le mafie sono diventate parte integrante del blocco politico-sociale nazionale (e non meridionale) che ha retto il paese ininterrottamente fino all’oggi, con qualche brevissima interruzione storica. La grande responsabilità delle classi dirigenti nazionali consiste nell’aver lasciato nel Sud rapporti sociali di proprietà così arretrati e così antistorici fino al secondo dopoguerra, alle soglie del boom economico italiano degli anni ’50/’70 del Novecento. È per tutelare quegli equilibri politici (che hanno retto la storia recente dell’Italia) che non si è voluto smantellare quel sistema di proprietà antistorico ma funzionale alla politica e all’economia italiane. La mafia del latifondo è sì un prodotto della storia meridionale ma che si è inserita senza colpo ferire nella storia nazionale, sia politica sia economica. Nella storia dello Stato italiano va registrato, dunque, il riconoscimento di un altro potere, quello delle mafie, che si affianca a quello statuale. E tale riconoscimento avviene all’indomani dell’Unità d’Italia e accompagna tutta la storia nazionale. La violenza mafiosa è stata utile agli equilibri politici della nazione.
Il nuovo Stato e le sue classi dirigenti sentirono come una necessità governare il Sud servendosi degli ordinamenti in essere in quei territori (comprese le mafie) riconoscendoli ufficiosamente. Il disprezzo che molti di essi avvertivano verso i ceti dirigenti e possidenti meridionali non li spingeva a rifiutarne l’alleanza. L’Unità d’Italia, dunque, consentì a fenomeni legati alla sopravvivenza di ordinamenti feudali di transitare nel nuovo assetto statuale. Era una legittimazione di necessità senza la quale non si sarebbe formata la nazione. L’Unità d’Italia, e in particolare il modo in cui si stabilirono i rapporti tra classe dirigente del Nord e del Sud, ha consentito la «nazionalizzazione delle mafie».
Il passato che non passa
A fine Ottocento la classe dirigente italiana teme le rivendicazioni contadine e bracciantili nell’intaccare la proprietà fondiaria e secolari privilegi. La repressione feroce del movimento dei Fasci siciliani è un
messaggio chiaro e inequivocabile rivolto a tutta la nazione contro la rivoluzione sociale nelle campagne. E per questa strenua e violenta difesa di privilegi antistorici che il blocco agrario-mafioso siciliano e meridionale viene legittimato dalla classe dirigente nazionale. E con esso i mafiosi. Se a fine Ottocento fosse stata varata la riforma agraria e se i contadini e i braccianti fossero stati liberi di organizzarsi nei Fasci, o in altre forme di rappresentanza politica e sindacale (come stava avvenendo nel Centro-Nord), sicuramente la mafia siciliana non avrebbe conosciuto il lungo successo storico che l’ha caratterizzata.
Nel secondo dopoguerra l’anticomunismo sarà la principale ideologia delle classi dirigenti dell’Italia. E ancora una volta fu la Sicilia a fare da avanguardia in questa guerra dei ceti possidenti contro le classi popolari nelle campagne. Alla fine del fascismo, bisogna ammetterlo, per vari motivi il fenomeno mafioso sembrava in grande difficoltà. Cosa consentì di riprendersi? Innanzitutto, la nuova legittimazione degli americani e poi quella democristiana. Non si vuole qui riprendere la vexata questio sul ruolo attribuito alla mafia siciliana nel favorire e agevolare lo sbarco degli alleati nell’isola, ma sta di fatto che gli americani si circondarono di mafiosi, diedero un appoggio al movimento separatista di cui la mafia era
protagonista, collocarono ai vertici delle amministrazioni comunali diversi boss mafiosi. E anche se ci può essere la giustificazione che essi volessero utilizzare e coalizzare tutti coloro che erano stati contro il fascismo, essa non è sufficiente a ridurre il ruolo degli alleati nella rilegittimazione delle mafie nel dopoguerra. Il reclutamento dei mafiosi nel fronte anticomunista è stato uno dei più importanti contributi della Sicilia agli equilibri politici della nazione. Si è usato l’anticomunismo per difendere a tutti i costi i propri privilegi, anche a costo di rilegittimare una mafia uscita malconcia alla fine del fascismo. C’è un legame strettissimo tra questione mafiosa e questione meridionale, ma c’è un legame altrettanto stretto tra questione mafiosa e storia italiana. Con l’arrivo dello Stato unitario il modello delle classi dirigenti meridionali, basato sul rapporto strettissimo tra violenza-potere e sulla identificazione del potere con la violenza, non viene affatto contrastato da un altro modello di governo dei conflitti. La sicurezza pubblica è la grande questione a cui si trova impreparato lo Stato unitario nel Sud. E, pur di farvi fronte, i rappresentanti del nuovo Stato accettano di utilizzare a tal fine anche i mafiosi e la loro «violenza d’ordine». Molti dei funzionari che vennero inviati al Sud si trovarono a che fare con un mondo che non conoscevano e strinsero rapporti con coloro che erano in grado a loro modo di disciplinarlo. Infatti, il nuovo Stato si dimostrò incapace di assicurare in Sicilia e nel resto del Sud finanche le condizioni minime
dell’ordine pubblico. E una netta maggioranza della popolazione mantenne una sostanziale estraneità con esso e con i suoi ordinamenti.
L’ostilità protrattasi nel tempo alla riforma agraria (e a qualsiasi impegno politico a superare gli iniqui rapporti di proprietà nelle campagne da parte della classe dirigente nazionale alleata degli agrari e dei baroni meridionali) è alla base della lunga durata delle mafie in alcuni territori. Non solo non si mise mano a un’organica riforma agraria, ma non furono accolte neanche le rivendicazioni contadine sui beni demaniali che erano stati sottratti alla collettività per l’arroganza e la prepotenza dei proprietari terrieri dopo la fine del feudalesimo. Perciò, si può affermare che anche le mafie hanno contribuito alla costituzione materiale dello Stato italiano. Se la borghesia del Centro-Nord si fosse avvalsa del suo potere statuale per contrapporsi alle mafie come fece contro il brigantaggio non saremo arrivati al loro potere attuale. Fu fatto invece un compromesso con le vecchie classi dirigenti meridionali: un loro aiuto a consolidare lo Stato unitario in cambio della repressione di qualsiasi tentativo di modifica dei rapporti di forza nelle campagne. Così i mafiosi divennero indispensabili per far rispettare quello storico compromesso. La storia delle mafie è anche la storia della debolezza statuale dell’Italia, debolezza che rappresenta un elemento strutturale e di lungo periodo della nostra vicenda nazionale.
Nel secondo dopoguerra
Il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Settanta sarà per il Sud foriero di grandi trasformazioni fisiche, economiche, sociali, culturali, come mai era avvenuto dal 1861 in poi. Per la prima volta, in maniera organica e con una solida strategia, l’intero Mezzogiorno vedrà svolgersi nei suoi territori una politica di «intervento straordinario» diretto dallo Stato con l’investimento di cospicue risorse pubbliche. Questo massiccio intervento pubblico sradicò vecchi comportamenti, vecchie abitudini, vecchie relazioni sociali, ma alla fine non fu in grado di incidere radicalmente sull’insediamento delle mafie e non le eliminò. È un caso che va studiato attentamente sotto questo profilo, perché sembravano essersi presentate tutte le condizioni storiche almeno di un ridimensionamento delle mafie, che al contrario trassero da quel tipo di trasformazione del Sud nuova linfa e nuova legittimazione. La scuola di massa aveva quasi azzerato nelle nuove generazioni l’analfabetismo che aveva caratterizzato la storia precedente, e aveva dato nuove prospettive di ascesa sociale per le masse popolari, un’ascesa che prima sembrava essere assicurata solo dalla violenza. La modernizzazione del Sud, insomma, sembrava mettere fuori gioco le mafie. Ma così non è stato, anzi, appena dopo le prime difficoltà economiche che misero in crisi l’intervento pubblico nel Sud, ritornò e si rafforzò di nuovo un consenso alle mafie, questa volta basato molto sulla capacità di far fronte a esigenze
economiche di larghi strati di popolazione che non erano riusciti a inserirsi in tempo nel cambio di condizione sociale offerto dallo Stato. Non è un caso che gli anni Settanta del Novecento segnano il ritorno delle mafie sulla scena locale e nazionale. La camorra napoletana utilizza il contrabbando di sigarette per fornirsi di una base di massa di sottoproletari che quasi ininterrottamente l’accompagnerà fino ai giorni nostri, mentre quella di provincia troverà nella trasformazione urbana di piccoli e medi
centri la sua nuova legittimazione. Poi il terremoto del 1980 le fornirà le condizioni per entrare da protagonista nell’economia legale. La mafia siciliana, che aveva subito dei contraccolpi dalla risposta dello Stato all’attentato di Ciaculli del 1963, e attraversato una fase difficile (come tutti gli storici segnalano), si riprende pienamente proprio in quel periodo. Mentre per la ’ndrangheta si può parlare degli anni Settanta del Novecento come il periodo di sua definitiva fuoriuscita dall’ombra. Gli anni Settanta, dunque, segnano insieme l’arresto della riduzione del divario del Sud verso il Centro-Nord (che si era realizzato nel ventennio precedente) e l’avvio della massima influenza economica, sociale e politica delle mafie. Che rapporto c’è tra queste due vicende? La modernizzazione non mise fine alle mafie. Anzi. Torniamo a considerare cosa ha significato il sistema clientelare di massa del dopoguerra e come ha cambiato la percezione dello Stato negli strati popolari. È indubbio che l’allargamento delle basi sociali dello Stato italiano è avvenuto effettivamente solo nel Secondo dopoguerra. Finisce in quel periodo un’epoca, il lungo Medioevo del Mezzogiorno, e anche le mafie sembrano essere travolte da quel cambiamento radicale. Fino al 1946 lo Stato italiano era rimasto sostanzialmente uno «Stato monoclasse». Gli unici diritti garantiti erano quelli dei proprietari. Ciò aveva comportato una larga estraneità delle masse popolari allo Stato e un suo debole radicamento fuori dal mondo che tutelava: uno Stato senza masse e masse senza Stato. A questi limiti e debolezze si pose rimedio con la democrazia imperniata sui partiti e con un radicamento clientelare dello Stato. Nell’immediato dopoguerra finisce un sistema di potere basato sul notabilato e comincia l’epoca del sistema di potere democristiano, sistema più aperto, meno classista, più democratico, più alla portata di tutti. Lo Stato cessa di essere il nemico, l’estraneo rispetto alla società meridionale, diventa il protettore e si trasforma in benefattore pluriclasse. Questa trasformazione comporta in definitiva che lo Stato non è più ritenuto solo amico dei potenti e spietato collettore di imposte e di obblighi da rispettare, ma che le masse popolari possono prendere parte e «prenderne una parte». Lo Stato diventa un fattore di ascesa sociale, assumendo un ruolo che nel
corso di tutta la storia precedente non aveva mai rivestito. Da qui il grande consenso al clientelismo politico. Quindi, nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta e Sessanta i leader democristiani avevano sostituito il vecchio notabilato di tradizione liberale e si erano affermati come «nuove potenze feudali». Con una differenza di fondo. Era un clientelismo di tipo nuovo, un clientelismo di massa e non rivolto a poche élite, come era successo nel passato. La clientela, considerata come una forma di giustizia che il
mercato non garantisce, riuscì a esercitare una grande spinta di promozione sociale ma al tempo stesso radicò una funzione utilitaristica e privatistica dello Stato. Ma le tesi che prevedevano l’estinzione dei mafiosi attraverso questa modernizzazione pilotata dai partiti-Stato furono presto smentite. Il tipo di modernizzazione che interessò il Sud non si rivelò affatto nemica delle mafie, le quali invece, dimostrarono sorprendenti capacità di adattamento, furono in grado di sopravvivere a qualsiasi cambiamento. Lo sviluppo nel Secondo dopoguerra del ruolo dello Stato nell’economia meridionale, e il suo trasformarsi in Stato assistenziale, non ridusse il ruolo delle mafie, anzi allargò la loro influenza su territori non tradizionali. Le mafie del secondo dopoguerra sono, quindi, anche un prodotto della
modernizzazione voluta per il Mezzogiorno d’Italia. Non è la carenza dello Stato che le ha rafforzate ma le particolari modalità di presenza dello Stato. Il sistema clientelare non ha aiutato completamente a legittimare lo Stato, ma ha sicuramente legittimato le mafie.
Si potranno mai discutere i nostri mali (questione meridionale, mafie e corruzione) senza trovare sempre una giustificazione nell’inevitabilità di quello che è avvenuto o in difetti ancestrali del costume e della mentalità? Il fenomeno mafioso deve il suo successo non alla presenza di una questione meridionale con i relativi divari regionali ma al modo in cui si è cercato di affrontarla, puntando su strategie che si sono mostrate disponibili alla presenza mafiosa.
*già publicato su Repubblica