di GIUSEPPE TRIPODI - Le nuciddhe sono le nocciole che, a forma allungata o rotonda, rientrano a pieno titolo tra la frutta secca di cui si fa molto uso nella pasticceria natalizia di tutta la penisola italiana.
Molti adolescenti di oggi, abituati da genitori e nonni al consumismo ludico fatto di oggetti di plastica ricalcati per lo più sulle storie di cartoni animati, non sanno che le nuciddhe erano alla base di un gioco natalizio molto diffuso, almeno fino ai primi anni sessanta, nella Calabria povera del secolo scorso.
I bottegai compravano le nocciole a chilogrammi e le vendevano a numero, anzi a “casteddhu” che era costituito da quattro nocciole, tre per la base e una per il colmo.
Il casteddu (castellina in italiano) era uno dei giochi a due: i giocatori ergevano (paravano) e colpivano a turno un castello posto ad una certa distanza: il colpo che andava a segno sfasciava il castello e il colpitore aveva diritto di appropriarsi delle sparpagliate nocciole.
Il colpo era più efficace se il lanciatore disponeva di una nocciola abbastanza grossa e pesante per mantenere dritta la traiettoria; onde i ragazzi facevano a gara per entrane in possesso, magari pagandola salatamente al venditore, e la conservavano con zelo fino alla fine del periodo natalizio.
“Baddhu” si chiamava il nocciolone ed era simbolo, anche lessicale, di virilità (nci calai u baddu, la ho posseduta carnalmente). Baddhu viene inequivocabilmente dal verbo greco ballo, lancio, colpisco, percuoto (da cui anche la parola italiana “balistica”). Ma si diceva “occhi di baddu” a chi aveva occhi grandi e sporgenti dalla fronte come grandi nocciole.
Altro gioco, adatto anche a più giocatori, era quello della “ceramita”: si poneva una tegola inclinata (per la precisione un coppo) e i giocatori, a turno, facevano scivolare nel canalone le nocciole che, una volta esaurita l’accelerazione di gravità, si disponevano in ordine sparso. Vinceva, e prendeva tutto come l’asso al gioco delle carte, colui la cui nocciola urtava una delle altre che erano state fatte scivolare in precedenza.
Il gioco, come era naturale, portava con sé inevitabili sfottò, litigi ( solo “cu joca sulu non si ncagna mai” ammoniva il proverbio), variegati commerci e prestiti dall’esito ora favorevole ed ora esiziale per il prestatore. Da qui il consiglio di non prestare mai, “cu mpresta perdi la testa”, o di imprestare solo ai fratelli e ai parenti che eventualmente avessero perso la loro dote iniziale di nuciddhe.
Poteva capitare che un giocatore particolarmente fortunato, specie quando la platea era ristretta, vincesse tutte le nuciddhe degli altri concorrenti. Per un po’ si crogiolava nel suo tesoretto ma poi, nonostante il proverbio contrario, finiva per prestare alcune noccioline a qualcuno, magari solo per poter continuare a giocare.
A volte colui che aveva sollecitato e ricevuto un prestito, per quanto minimo, riusciva con l’aiuto della fortuna a sottrarre tutto il patrimonio nuciddharico del prestatore.
La Befana, ovviamente, portava via le feste ed anche il gioco delle nuciddhe che, perso il valore connesso alla funzione ludica, potevano alfine essere mangiate: “Dopu a Befana sona u tamburu / e cu ndavi nuciddi s’i zicca nto culu”.