La Calabria dei non calabresi

La Calabria dei non calabresi

sna        di GIUSEPPE FIORENZA - In certi italiani e più ancora negli stranieri, esiste una ingiusta offensiva diffidenza per la taciturna fierezza di quell’umile gente, per certi atteggiamenti che paiono di malevolenza e che sono invece effetto di povertà, di fatica mal rimunerata, di stenti, di speranze deluse, spesso di debolezza organica cagionata dalla malaria.

I viaggiatori costieri frettolosi e difficoltosi non escono da questo stato d’incomprensione e di ottusità e contribuiscono soltanto a diffonderlo, magari con libri troppo ingiustamente fortunati. Bisogna addentrarsi nella Calabria, percorrerne strade e sentieri, vederla nelle sue parti più alte e più lontane, per conoscerne bene, insieme col più caratteristico paesaggio, l’anima delle popolazioni. (G. Isnardi)

Vorremmo partire da questa semplice annotazione.

E rispondere a una domanda: è vero che i viaggiatori europei (ed italiani) hanno contribuito a creare una realtà la cui immagine spesso è stata manipolata ad arte, fino a dare una fotografia stereotipata della regione che, almeno dagli anni ottanta in poi, ha costituito la base per costruire e diffondere una odiosa e denigratoria idea verso i calabresi, senza operare distinzione alcuna e senza inserire il discorso nel giusto contesto ma assolutizzando una realtà complessa e articolata?

E’ vero che spesso solo uno straniero era capace di cogliere sfumature che un “indigeno” (vuoi per ignoranza vuoi per indolenza vuoi per mancanza di confronto vuoi per malafede) a malapena poteva scorgere. Il substrato popolare anzi era troppo impegnato con la fame, la miseria, l’ingiustizia per ammirare il mare e i panorami! Infatti, questa osservazione vale solo per i luoghi, ovvero per la natura calabrese, aspra e selvaggia, che incantava pressoché tutti i viaggiatori ma non per la gente.

Giuseppe Isnardi lo aveva intuito già allora e noi, su questa falsariga, vogliamo andare a vedere il rapporto di questi “forestieri” con la Calabria e i calabresi, senza esprimere giudizi di merito socio-politici né allarmismi di lesa maestà. Non solo viaggiatori però ma anche militari, artisti, letterati, filosofi, uomini di potere, giornalisti e individui di varia e infedele umanità.

Vorremmo però sgombrare il campo da ogni equivoco. Le inchieste sulla criminalità, sulla malasanità, sui reati in genere, sui mali della regione, sui problemi del lavoro, dell’emigrazione,
dello sfruttamento dei ragazzi, insomma in una parola tutto ciò che costituisce l’oggetto dell’interesse appunto dei forestieri (giornalisti, mass media eccetera) è un lavoro assolutamente legittimo ed è auspicabile che consenta se non di risolvere almeno di far conoscere quelle realtà ostiche. Però però…il problema è dell’approccio che questi emeriti signori hanno con la realtà calabra, l’atteggiamento, in una parola un concetto che può essere il pregiudizio.

In una parola: dato per scontato che due milioni di calabresi (è la popolazione della regione) non possono essere tutti mafiosi, quanto pesa sulla loro identità questa contaminazione, chiamiamola così, proveniente dal campo dell’illecito e/o del pregiudizio? Di più: quanto ha contribuito e contribuisce il punto di vista extraregionale a creare questa identità?

Per evitare tuttavia di essere anche noi vittime del pregiudizio, a questo punto vogliamo chiederci: è l’assenza di autocritica e/o di autoironia nei calabresi a spingere gli “stranieri” a colmare il vuoto o è il contrario? Oppure lo stereotipo sul calabrese creato dai mass media è così forte che spingerà via via gli “altri” a sentirsi autorizzati a ogni tipo di macchiettizzazione verso di noi?

Su questo cercheremo di fare luce.

Iniziamo con qualche discorso di principio per poi addentrarci, nei prossimi articoli, a raccontare singoli casi. Partiamo dalla lingua, da come viene usata la lingua. La ‘Ndrangheta è una parola del dialetto calabrese che indica la mafia nata in Calabria. Allora, che bisogno c’è di dire negli articoli, nei saggi, nelle interviste la ‘Ndrangheta calabrese? Basta solo ‘Ndrangheta no? L’aggettivo “calabrese” è superfluo. Invece per svuotare il contenuto dell’aggettivo e qualificarlo solo in relazione alla criminalità lo si usa indiscriminatamente.

Un esempio recente è del 7 febbraio 2011, un articolo sul Messaggero da notizia della morte di Paul Getty III sequestrato a suo tempo da banditi “calabresi”!!! Va notato che questa è una notizia di agenzia, per cui è stata pubblicata allo stesso modo da più giornali.

Spesso dunque la Calabria è stata rappresentata e raccontata, positivamente o negativamente, da non calabresi.

In tempi più recenti è invalso l’uso nella cultura diremmo ufficiale (o nazionale forse è meglio) di strumentalizzare non proprio la Calabria ma l’idea stessa della regione e dei suoi abitanti, di usarla per fini puramente commerciali. E questo utilizzo viene spesso messo in atto da non calabresi, che hanno un’idea superficiale e raffazzonata del calabrese.

Iniziò Sergio Vastano (nato a Roma) negli anni ottanta. Ricordate Drive In? In quell’ambito il simpatico attore creò la macchietta del “bocconiano calabrese”, lo studente velleitario che parla con grave accento calabrese.

Su Radiodue Lillo e Greg, entrambi romani, hanno creato la macchietta di un personaggio (che è uno dei due) Pasquale Dianomarina, che ha inventato la parodia (peraltro divertentissima) del calabrese (inteso come dialetto) estremo e nel quale il rap della soppressata è il culmine.

Fiorello, che tutti sappiamo siciliano, ogni tanto o spesso sente anche lui l’esigenza di macchiettizzare il dialetto, perché è comico e diverte il pubblico. La nostra acca o ti aspirata può essere oggetto di sketch ma a nessuno viene in mente che è una derivazione araba con nobili e antiche ascendenze storiche.

Anche Franco Neri, quello di Franco oh Franco, che ormai è lo slogan-icona di Zelig, è torinese doc, essendo solo d’origini calabresi, infatti è nato a Torino.

Il lombardo di origini siciliane Antonio Albanese, a torto o a ragione, con il suo Cetto La qualunque, creato ci pare qualche anno fa e ora al cinema con il film Qualunquemente, ha sentito l’esigenza, non si capisce perché, di rappresentare un calabrese.

Nella letteratura, spesso i libri che parlano di ‘Ndrangheta sono scritti da non calabresi. L’ultimo, in ordine di tempo, è un bel libro del giudice Francesco Cascini, Storia di un giudice - Nel Far West della ‘Ndrangheta. Il libro è bello, però dà l’idea di una immanenza catastrofica della vita naturale calabrese, come appunto avviene in guerra, preda della ‘ndrangheta e della criminalità organizzata. Sembra che in quella zona non ci siano persone che amino, che vivano, che si divertono, che ridano e piangano, in una parola quella è una zona di guerra dove incombe minacciosa l’ombra nera della mafia, che tutto oscura, anche il potente sole dello Jonio.

Qui si tratta di un giudice toscano, ma è un caso di onestà intellettuale, perché lo stesso autore non si permette di esprimere giudizi morali. Cosa che non accade negli ambiti prima citati.

La premessa è che prima di lui duecentocinquantanove giudici rifiutano di andare a Locri. La deduzione logica è che il giudice ha paura, cosa che non gli impedisce di notare “la bellezza di quel posto (il fatto che gli altri non gliene avessero parlato)… mi provocò un certo sconforto”.

Alla fine, il giudice dice “Lasciavo una terra meravigliosa e terribile, accogliente e violenta, senza speranza eppure così piena di vita. Lasciavo il mare, le persone per bene…”

Questo significa che l’autore del libro dà l’idea assolutamente corretta di un luogo fortemente contraddittorio, dove alla bellezza e alla cortesia di persone perbene si affianca una totale assenza di controllo sociale e di terribile assuefazione ai reati e alla mentalità criminale.

Fa specie però notare l’uso subdolo del luogo comune, da parte dell’editore, di utilizzare parole che attireranno lettori ma cadono come pietre sulle nostre coscienze. In questo caso il titolo Storia di un giudice sarebbe stato poco appetibile. Infatti ci voleva anche un termine che evocasse l’epopea delle grandi sparatorie e della violenza: Nel Far West della ‘ndrangheta!!!

*Giuseppe Fiorenza, antropologicamente calabrese, vive a Torino. Ha pubblicato romanzi, saggi e sceneggiature.