REGGIO. Gli Apaches del Rione Ferrovieri

REGGIO. Gli Apaches del Rione Ferrovieri

apache     di ANTONIO CALABRO' - Uno degli spassi della gioventù degli anni ’80 era indubbiamente il calcetto, in pratica la trasposizione del calcio giocato per strada in campetti regolamentari con le porte munite di reti, arbitro e tutto il resto. Dopo decenni di partite disputate sull’asfalto, per gli appassionati di dribbling e tiri al volo quello rappresentò il culmine del progresso, l’inizio di una nuova era, il sogno realizzato.

Nei rioni si organizzavano naturalmente tornei e campionati di varia natura. Nel Rione Ferrovieri-Pescatori il più importante si svolgeva presso i campi da tennis del Dopolavoro Ferroviario nel mese di Maggio. Partecipavano tutti i più forti calciatori della zona- ed erano tanti – militanti in varie squadre di campionati dilettanteschi dalla prima categoria all’eccellenza, e per ogni squadra erano ammessi persino due “stranieri”, cioè atleti risiedenti in altre zone della città. La competizione era accesa, l’agonismo tanto, la rivalità feroce. Ogni sera per venti giorni centinaia di persone seguivano le partite – familiari e amici sugli spalti a svolgere le veci di “ultrà”- con grande gioia dei proprietari del bar-pizzeria annesso al sito che facevano affari d’oro.

Quell’anno- era il 1988- all’uscita del bando con le condizioni d’iscrizione al torneo, un gruppo di ragazzi, i più alternativi, scalmanati e variopinti del quartiere, una specie di succursale dei Rolling Stones in salsa calabrese, decisero d’iscriversi alla competizione e fondarono in quattro e quattr’otto una squadra che fu battezzata “Gli Apaches”.

In effetti erano, rispetto agli altri, molto simili ai predoni dell’Arizona , non solo per i capelli lunghi, per la trasandatezza nel vestire, per gli usi alcolici e le consuetudini reggae, ma anche per quella loro non-appartenenza ai destini più che tranquilli dei coetanei.

Gli Apaches si misero in luce sin dalla prima partita. Dati per spacciati, considerati squadra materasso, quasi ridicoli con le loro magliette tutte diverse (unica nota comune lo sfondo bianco) al cospetto degli squadroni super attrezzati, ingiuriati e offesi e sbeffeggiati dal pubblico, ma fortissimi nella coesione, eccellenti nelle individualità e soprattutto muniti di un coraggio indomito, sconfissero tutte le squadre del loro girone festeggiando ogni partita con grandi bevute e feste improvvisate.

Nei quarti di finale gli capitò una delle favorite, e fu impresa. I “campioni” avversi vennero umiliati, si sfiorò la rissa ma da quel punto di vista gli Apaches non avevano niente da temere. Risultato 5 a 2, e tutti a casa. Tra il primo e il secondo tempo il Mister (di Africo) offrì loro un giro di Campari corretti con Gin che li galvanizzò e li condusse alla vittoria. Il nome degli Apaches era come fumo negli occhi per gli organizzatori e per tutti i benpensanti che seguivano il torneo.

In semifinale gli Apaches vennero sconfitti, ma solo ai rigori, dalla squadra che poi vincerà il torneo, nella quale militavano fior di calciatori alcuni dei quali poi divennero professionisti. Sconfitti, ma non battuti. Giunsero terzi, magliette bianche e bandane e scarpe da tennis contro i semi professionisti con gli sponsor. Rimasero per tanti anni legati a quel nome e ancora oggi c’è chi si ricorda di quella strampalata squadra.

Alcuni di quei giovani dal viso sorridente, belli come angeli e ribaldi come diavoli, non ci sono più. Altri hanno avuto un destino ingrato, ma gli altri si sentono ancora Apache, refrattari a regole e compromessi, con una immensa passione per la vita e con il ricordo di quella gioventù incastonato nel cuore, che è un gran cuore, oggi come allora.