La transizione energetica dell’Europa verso energie pulite e rinnovabili era già un punto irrinunciabile prima della crisi geopolitica (e geoeconomica) scoppiata con l’invasione russa dell’Ucraina. Lo era per ragioni di fondo e di lungo periodo, che attengono alla ormai provata insostenibilità ecologica del modello energetico basato sulle energie fossili, e alla volontà europea di costituirsi come punto di riferimento nella transizione a un modello sostenibile. Un Green Deal europeo era già materia di ampia convergenza quando la crisi del Covid ha reso possibile ciò che fino a quel momento sembrava impensabile: un piano di investimenti infrastrutturali volto a riconfigurare lo spazio produttivo europeo.
In Defense of Public Debt
Insisto sui due termini (“piano” e “infrastrutturali”) perché riassumono bene il cambiamento di orizzonte che stiamo sperimentando: dopo decenni di lotta ideologica alla spesa pubblica e ancor più al debito pubblico, ora si scrive, anche in ambito mainstream, In Defense of Public Debt[1]. Si riconosce, insomma, che esistono attività essenziali per il buon funzionamento di una economia di mercato che nessun attore dell’economia di mercato può intraprendere da solo, e secondo la logica dell’investimento privata. È giunto dunque, a quanto sembra, il momento di meditare attentamente ciò che Keynes diceva a proposito de di un concetto spesso non ben compreso ma centrale nel suo pensiero, la socializzazione degli investimenti: non si tratta di chiedere al pubblico di fare ciò che già l’iniziativa privata sa fare, ma di pretendere che faccia ciò che solo il pubblico può fare, affinché l’iniziativa privata sia sostenuta e orientata in una direzione socialmente accettabile. E ciò che il pubblico può fare, elettivamente, sono gli investimenti infrastrutturali, nel quadro di una politica industriale di lungo periodo.
Opportunità e vincoli delle nuove fonti di energia
La ragione è che, quando si parla di infrastrutture, si parla di investimenti caratterizzati da una redditività a lungo termine, e per questo motivo difficilmente sostenibili dall’attività privata, ma senza i quali la stessa redditività degli investimenti privati può risultare sensibilmente affievolita.
Si aggiunga un elemento storico di lungo periodo: nella storia dell’industria moderna, i cambiamenti di paradigma produttivo sono sempre stati legati allo sviluppo di nuove fonti o di nuove tecniche di produzione di energia, che hanno aperto nuove possibilità, ma hanno anche dettato vincoli alla forma dello sviluppo. Si tratta allora di capire bene quali sono ora le opportunità e i vincoli tecnologici delle nuove fonti di energia, per comprendere anche in che direzione elaborare politiche capaci di cogliere le possibilità di benessere sociale diffuso legate alle nuove tecnologie energetiche. Vale la pena insistere su questo punto, perché gli anni che abbiamo davanti saranno anni di competizione geopolitica globale, in cui saranno in gioco non solo i modelli economici dei principali attori, ma anche i modelli politici che reggono e al contempo sono veicolati dalle loro economie. In altri termini, e per essere chiari: se vuole giocare un ruolo attivo e propositivo nel contesto politico a venire, se vuole avere una voce che si intenda chiara in un contesto sempre più assordante, l’Europa deve sforzarsi conseguire una reale autonomia geopolitica. E in questa prospettiva la partita energetica è cruciale. E sarebbe bene che la sinistra si giocasse un pezzo importante della sua identità politica elaborando idee e prospettive chiare. Vediamo allora gli elementi costitutivi, tecnici e geopolitici, della questione energetica.
Stoccare energia: vincolo tecnologico e politico
Una vera rivoluzione verde nel campo delle energie passa necessariamente per uno spostamento verso l’elettricità come principale fonte energetica negli usi finali: la riduzione delle emissioni passa per una crescente prevalenza di auto elettriche, e riscaldamento urbano a base di pompe di calore. Ovviamente questo non basta, e si tratta di capire come l’elettricità viene prodotta, giacché è chiaro che auto elettriche le cui batterie venissero ricaricate con elettricità prodotta con carbone non risolverebbero il problema delle emissioni, ma lo sposterebbero semplicemente a monte. In attesa di tecnologie promettenti ma non ancora efficienti (penso soprattutto all’idrogeno), le uniche fonti realmente verdi e rinnovabili sono, a parte il tradizionale idroelettrico (che non può pensare di aumentare in modo importante), l’eolico e il fotovoltaico. Il compito della decarbonizzazione, che è al centro del Green Deal, sta spingendo l'Europa verso una radicale ridefinizione del suo "mix energetico", conferendo centralità, se non preminenza, alle energie rinnovabili. Si tratta di tecnologie efficienti, con i costi di produzione più bassi, ma caratterizzati da una strutturale intermittenza: il vento soffia quando soffia, e il sole c’è solo di giorno. Qui la tecnologia si scontra con la natura, perché il sole e il vento non possono essere direttamente controllati. Le energie rinnovabili vengono quindi prodotte quando è possibile, e non a comando, cioè quando servono. Si aggiunga a ciò il fatto che l'elettricità è un puro flusso, e che la rete la “immagazzina” solo nella misura in cui rimane in tensione. Un'energia elettrica prodotta in eccesso rispetto all'utilizzo puntuale deve essere stoccata in un altro modo. Il modello di riferimento è “bancario” (deposito-ritiro) o, ancora meglio, di "buffer stock": “magazzini” in grado di assorbire eccessi di produzione e di rilasciarli in modo da servire la domanda in modo continuo e a prezzi stabili. Il modello è stato efficacemente utilizzato con l'idroelettrico grazie alle dighe, ma va ripensato per adattarlo all'eolico e al fotovoltaico. La soluzione strategica e strutturale è lo stoccaggio mediante batterie dell’energia elettrica prodotta con le tecnologie rinnovabili.
Investire nella rete e nella capacità di stoccaggio
La transizione alle energie rinnovabili implica quindi, a livello europeo, un duplice obiettivo infrastrutturale: una compiuta integrazione della rete, che significa porre fine alla segmentazione del mercato elettrico europeo e alle perdite di efficienza che ciò comporta, ma implica anche massicci investimenti nella rete (stimati in circa 375-425 miliardi entro il 2030); ma soprattutto la sua stabilizzazione, a fronte dell'intermittenza strutturale delle rinnovabili, che implica richiede un aumento significativo della capacità di stoccaggio. Ecco il primo problema: un passaggio massiccio alle energie rinnovabili comporterebbe un tale aumento della domanda di "strumenti di accumulo" in Europa che potrebbe facilmente causare forti limitazioni dell'offerta. Anche partendo da ipotesi abbastanza conservative sul ritmo della transizione e considerando solo la domanda di batterie per la produzione di energia rinnovabile (senza cioè contare il fabbisogno di batterie per le auto elettriche), un esercizio di approssimazione per la sola Italia dà un fabbisogno cumulativo di stoccaggio equivalente alla produzione mondiale di batterie nel 2021. Lo stesso esercizio a livello dell’eurozona porterebbe a un aumento della domanda potenziale di stoccaggio pari a circa otto volte l'attuale produzione globale. È quindi chiaro che la transizione verso le energie rinnovabili richiede investimenti non solo nella produzione, ma anche nella ricerca di soluzioni di stoccaggio più efficienti.
Se questo era già abbastanza chiaro prima della guerra, ora sta diventando fondamentale.
Le complicazioni geopolitiche e il posizionamento europeo
Stretta fra riduzione più o meno volontaria degli approvvigionamenti di gas russo, e la necessità di accettare aiuti non proprio a buon mercato non solo dai suoi alleati ma anche da fornitori non molto più “democratici” del precedente, il tutto condito da ingiustificate e ingiustificabili fiammate speculative sui mercati dei futures del gas, l’Europa sta sperimentando quanto la sua capacità di contare nella politica mondiale passi per la sua indipendenza energetica.
La transizione energetica portata avanti dal Green Deal poteva sembrare una questione puramente tecnica, ma la guerra ha fatto emergere un secondo aspetto, che il ministro delle finanze tedesco Lindner ha espresso nel modo più netto subito dopo lo scoppio della guerra: "le energie rinnovabili - che sono la controparte positiva della libertà dal gas russo – [sono anche] la base per la libertà futura". La guerra ha imposto non solo un’accelerazione ai propositi già decisi, ma sta anche ponendo nuove complicazioni per la loro realizzazione. Prima della guerra, in effetti, proprio sul gas si era fatto affidamento per la transizione verso la decarbonizzazione e le energie rinnovabili, senza contare troppo sul nucleare e liberandosi definitivamente degli altri combustibili fossili. Tecnicamente parlando, il gas avrebbe permesso di gestire i periodi di picco del carico senza dover fin da subito fare affidamento su livelli elevati di stoccaggio in batteria.
Con la guerra il gas non è più la soluzione, è diventato il problema. Mentre il mercato del petrolio è globale, quello del gas è regionale, e (colpevolmente) speculativo. I gasdotti non si aprono e chiudono a piacimento, e le aspettative di rialzo dei prezzi producono rialzi dei prezzi. E per quanto si possa diversificarne l’approvvigionamento e stoccarlo, il gas continuerà a costare caro, rendendo il problema elettrico ancora più pressante. È chiaro che la nuova situazione ci spinge verso una maggiore integrazione europea, senza la quale non è pensabile un vero posizionamento dell'Europa nei confronti dei grandi attori globali. E l'indipendenza energetica sembra essere una precondizione, come sembra essere stato riconosciuto dal piano REPowerEU, reso pubblico il 18 maggio 2022: “un piano per ridurre rapidamente la dipendenza dai combustibili fossili russi e accelerare la transizione verde”. La soluzione a lungo termine, che deve quindi essere pianificata fin da ora, è chiara: un cambiamento del mix energetico che riduca strutturalmente il peso del gas e aumenti quello delle energie rinnovabili.
Tuttavia, questa soluzione pone anche un nuovo problema perché, dato lo stato della tecnologia di produzione delle batterie, rischia di spingere l'Europa verso una nuova dipendenza geopolitica, questa volta dalla Cina. Lungi dal costituire la base per la libertà futura, la transizione verso le energie rinnovabili rischia di diventare una nuova, doppia, dipendenza: a monte, a causa del quasi-monopolio cinese, non tanto del litio, quanto delle terre rare; a valle, a causa del suo quasi-monopolio nella produzione, basato su economie di scala e con un vantaggio tecnologico difficile da spezzare o anche semplicemente da raggiungere. Dati i vincoli di fornitura esistenti, un'accelerazione verso le rinnovabili a scapito del gas rischierebbe di mettere l'Europa doppiamente in difficoltà. Il superamento di questo rischio rende ancora più necessaria una politica industriale comune, o almeno fortemente coordinata, basata su massicci investimenti in ricerca e produzione.
Una strategia energetica richiede strumenti pubblici potenti
L’uscita dai vicoli ciechi in cui il contesto geopolitico e geoenergetico rischia di porre l’Europa esige l’elaborazione di una strategia europea comune e condivisa, che sia attenta non solo agli obiettivi ma anche al modo in cui devono essere raggiunti. Che investimenti pubblici ingenti siano necessari per dare l’avvio a un processo di riconversione tecnologica di grande ampiezza, è cosa evidente. Sarebbe bene che fosse evidente anche che una strategia di questo tipo esige di essere affiancata da una strategia finanziaria adeguata. Fra le armi strategiche per l’uscita dalla doppia dipendenza e per la riaffermazione di un ruolo attivo dell’Europa ci deve essere anche un cambiamento di mentalità nei confronti del debito pubblico e del suo finanziamento. Sembra che dopo le aperture emergenziali dell’epoca covid, in Europa ora ricominci a soffiare il vento dell’austerità finanziaria. Su questo punto, tuttavia, non è più permesso nascondersi dietro un dito: se vogliamo una strategia energetica adeguata dobbiamo dotarci degli strumenti pubblici necessari per attuarla. Come è stato fatto recentemente osservare, anche nel campo neoliberale ci sono aperture a un maggiore attivismo statale. Ma come ricordava Keynes ormai quasi cent’anni fa, c’è intervento e intervento: e se c’è oggi un investimento da socializzare, sia nella sua esecuzione sia nel suo finanziamento, questo è l’investimento energetico. Una sinistra consapevole deve prenderne atto, e rivedere coscienziosamente le leggerezze ideologiche degli ultimi decenni. Che sono consistite essenzialmente in una resa sistematica al precetto dell’assenza di alternativa al puro funzionamento di un mercato supposto sempre efficiente. L’alternativa invece c’è, soprattutto se la si cerca e la si elabora. E il momento è ora.
*da Fuoricollana.it. Economista, insegna alla Bocconi.