«Mi fanno un processo politico sui figli. Sono sicuro di come andrà ma se fate i processi in tv date anche le sentenze. Guardate, riesco anche a riderci un po' su, con la morte che ho dentro». Purtroppo anche Beppe Grillo scopre sulla sua pelle quanto male faccia il processo mediaticoLe sue parole, pronunciate dal palco del teatro Mancinelli di Orvieto dove porta in scena la prima del suo nuovo spettacolo Io sono il peggiore, hanno il retrogusto amaro della beffa. Perché proprio lui, il comico che dal nulla fondò un Movimento costruito sulle fondamenta della gogna e delle manette tintinnanti, ora si ritrova sputtanato sui giornali come un politico qualunque.
Qualsiasi pretesto, anzi, qualsiasi indagine è buona per confezionare un giudizio di colpevolezza a carico dell’imputato, basta il processo si consumi fuori dall’aula di un Tribunale e il gioco è fatto. Che tu sia indagato per traffico di influenze illecite o tuo figlio accusato di stupro di gruppo non cambia: tutto può essere utile per colpire un nemico politico. Basta il sospetto, come diceva Gianroberto Casaleggio. E adesso Grillo si trova dall’altra parte della barricata, vittima di una macchina che lui stesso ha oliato a lungo: nelle piazze, sul web, in Parlamento (tramite i “suoi” deputati e senatori).
A 16 anni di distanza dal primo “Vaffa- Day”, Beppe è un padre distrutto e un politico stanco, defilato. Che forse ha perso la fede granitica nella gogna giudiziaria come strumento purificatore del mondo.
Non è la prima volta, del resto, che Grillo (e prima di lui qualche grillino) tentenna davanti a un’indagine finita integralmente sui giornali, con tanto di contenuti penalmente irrilevanti pubblicati. Nel gennaio dello scorso anno aveva fatto trapelare di essere «tranquillo, ma amareggiato per i tempi dell’inchiesta» di Milano sul presunto traffico di influenze illecite messo in atto dal garante M5S. Secondo i pm, in cambio di un contratto pubblicitario sul suo Blog sottoscritto dall’armatore Vincenzo Onorato, Grillo avrebbe girato ai “suoi” parlamentari i desiderata dell’imprenditore. Una vicenda tutta provare ma sufficiente a scatenare l’ondata di indignazione nei confronti del comico, amareggiato per la tempistica dello “scandalo”. Sì, perché finisce tutto in pubblica piazza proprio alla vigilia dell’elezione del Capo dello Stato, mentre il Movimento 5 Stelle, all’epoca ancora prima forza parlamentare, prova a tessere la sua tela politica per individuare un candidato alternativo a Mario Draghi, il nome che fino a quel momento sembrava il più accreditato alla successione di Mattarella. Forse in quell’istante Grillo, che avrebbe espulso chiunque per molto meno dal suo partito comincia a dubitare.
Qualche anno prima, nel 2016, era toccato a Virginia Raggi, di certo non sospettabile di simpatie garantiste, aprire una breccia nel muro pentastellato alla vigilia delle elezioni comunali. «Riteniamo giusto e corretto che a seguito di un avviso di garanzia vengano capite le motivazioni che sono alla base e poi, sulla base di queste, quando ci sono contrarietà ai principi del Movimento, è giusto dimettersi», aveva detto la candidata sindaca in campagna elettorale, prima di concedersi un’eresia: «Ma gli avvisi di garanzia non devono essere utilizzati come manganelli». Era la prima volta che un esponente 5S pronunciava parole simili in pubblico. Fu solo un episodio isolato, purtroppo.
La storia del grillismo ha continuato a essere governata dalla cultura del sospetto come stella polare e garanzia di trasparenza, l’unico marchio originario di fabbrica visibile ancora oggi. Ma ora che anche il garante, il fondatore, è finito davanti al ventilatore del fango, forse anche da quelle parti potrebbe aprirsi uno spiraglio per una riflessione profonda. Certo, sarebbe come rinnegare la propria esistenza. Ma sarebbe anche un modo per liberarsi da quella «morte dentro» che oggi ha lacerato il povero Beppe.
*già pubblicato sul Dubbio.