La vera scelta che il Pd ha davanti - ora che è iniziata l’era del governo della destra a Palazzo Chigi e quella del nuovo segretario del partito (ufficialmente dopo l’Assemblea Nazionale di metà mese) - è quella tra il recupero della capacità di rappresentanza dei gruppi sociali più disagiati, che ha quasi del tutto perso (più di altri partiti di sinistra europei) con il grande esodo verso le formazioni di protesta e populiste, e invece il proseguimento dell’illusione del partito dei ceti medi, che - come mostrano i dati, ignorati nel dibattito così come gli spunti offerti dalla ricerca comparata - continuano in realtà a preferire l’offerta originale del centro-destra a quella succedanea del Pd che fu di Letta etc etc.
Il primo corollario che ne discende è che si può essere di sinistra, nel senso di cercare la rappresentanza dei gruppi più disagiati, senza essere necessariamente assistenzialisti o antisistema.
È oggi possibile costruire un’alleanza estesa tra gruppi più disagiati e ampi settori dei ceti medi più aperti a una redistribuzione responsabile e sostenibile.
Questa strada si basa su un riassetto coraggioso del welfare, della tassazione, delle relazioni industriali e delle politiche per l’innovazione che non frena ma sostiene lo sviluppo, ed è sperimentata da alcuni partiti di sinistra a forte tradizione socialdemocratica (paesi nordici e Germania dopo Schroeder) nel quadro di una democrazia negoziale.
Ma si sa: la socialdemocrazia non ha mai avuto buona accoglienza da noi. Quando c’era un forte Pci era considerata troppo di destra, oggi a una parte non trascurabile del Pd, a volte anche per opportunismo e mera ricerca del potere, appare troppo di sinistra. Al tempo che fu, con la socialdemocrazia che aveva in tutta Europa il vento in poppa, Berlinguer e Craxi pensarono a litigare tra di loro e non se ne fece nulla.
Secondo corollario. Lo schema riformisti-massimalisti, suggerisce in pratica al Pd di insistere su una prospettiva di Terza Via che si è dimostrata fallimentare per la sinistra, ma anche per le democrazie, con la crescita del populismo.
In pratica, minore distinzione dal centro-destra sul piano economico-sociale e invece più marcata offerta liberal su quello dei diritti civili e dell’ambiente. Ma è impossibile che un partito di sinistra possa risollevarsi e a recuperare il suo elettorato popolare con una prospettiva di questo tipo.
Cioè senza porsi non solo come partito dei diritti, o all’americana come catalizzatore dei movimenti della società civile, ma anche e soprattutto come partito di contrasto delle disuguaglianze crescenti.
Resta da verificare, possibilmente in un congresso costituente con una discussione vera e magari valendosi di una sorta di Libro Bianco da affidare a competenze scientifiche, la praticabilità di questa strada e solo allora decidere se e come il Pd debba continuare.
Un dato pare però certo: il Pd non sarà riformato semplicemente sostituendo i ‘vecchì con i giovani, pure indispensabile. La mobilitazione di un ampio schieramento di associazioni che intravedevano lo spazio per fare politica, non come professione, ma come vocazione temporanea, sospinse al tempo dell’Ulivo al successo elettorale. Ma sembra passato un secolo anche se domenica alle primarie così partecipate qualcosa di simile si è appalesato. Poi, però, neppure gli ulivisti – ha amaramente commentato Gianfranco Pasquino – ‘’vollero, si dedicarono, seppero impegnarsi nella attività indispensabile per cambiare questo paese: elaborare una cultura politica all’insegna di una società giusta, europea e europeista, che riduce le eguaglianze e amplia le opportunità’’.
Vedremo ora cosa accadrà perchè qualcosa dovrà pure succedere dopo l’indiscutibile novità dell’elezione domenica sera di Elly Schlein.