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Un estratto del libro Ferite a morte di Serena Dandini "Bambole rotte" . La foto è di Nino Politi

Devi aver paura degli uomini, non dei mostri. Niccolò Ammaniti, Io non ho paura

Mi sono sposata tardi, a ventinove anni. Già mi chiamavano ridacchiando «il dolce di Natale», quello che, dopo il 25 dicembre, nessuno vuole più. Le ragazze come me sono dolcetti andati a male, qualcosa che bisogna sbrigarsi a buttare… Io poi ero anche considerata una parassita, dicono così nel mio Paese quando alla mia età si vive ancora a casa dei genitori, e anche se avevo studiato e trovato un bel lavoro, per loro ero comunque «una single parassita», una che si teneva tutti i suoi soldi per sé. Ti dico che non me ne importava proprio niente, lo so, guadagnavo solo la metà dei miei colleghi maschi come tutte le donne nel mio Paese, ma ero comunque orgogliosa del mio mezzo stipendio.

  Tanto se avessi scelto di fare la casalinga non mi sarebbe andata meglio, le donne di casa qui le chiamano «tre pasti e un pisolino», sei comunque una lavativa, anche se ti ammazzi di fatica tutto il giorno per i figli e il tuo shujin… ah sì, scusate, shujin vuol dire signore, da noi per tradizione il marito si chiama così, no, non è che si chiama… è proprio così, non è un soprannome tanto per dire, l’uomo in casa è un vero imperatore e bisogna saperlo onorare e servire. Dimenticavo, non vi ho ancora detto qual è il mio Paese… ma è il Giappone naturalmente: la grande potenza, l’impero che ha creato i marchi di auto e di hi-fi più conosciuti dell’universo, l’invincibile forza industriale che produce senza sosta tecnologia all’avanguardia proiettata nel futuro… la tecnologia proiettata nel futuro, ma per noi ragazze c’è ancora il passato. Siamo tenute a bada, legate con un filo sottile ma indissolubile alle nostre tradizioni millenarie, anche se le femministe adesso si stanno battendo per qualche diritto in più come quello di conservare il nostro nome dopo sposate. Sì lo so, è un po’ poco, ma è già qualcosa, a me sarebbe piaciuto tanto tenerlo il mio nome, ma non c’è stato verso, lui aveva studiato in America e lo vedevo diverso dagli altri ma ha voluto per forza che mi chiamassi come lui, un bel timbro per sottolineare un possesso.

  E pensare che all’inizio mi sembrava proprio l’uomo giusto per me: tutti i parametri del marito ideale erano positivi, il titolo di studio, la posizione della famiglia, i responsi dell’astrologia e della numerologia cinese. Ero stata molto fortunata e poi quando un dolcetto è scaduto meglio sbrigarsi…

  E lui era così speciale e pieno di attenzioni, intanto era molto più romantico della media dei maschi giapponesi, certo non arrivava a dirmi ti amo, qui gli uomini si vergognano di dimostrarsi troppo sdolcinati, è un segno di debolezza e di mancanza di stile. Non ci credete? Be’, sappiate che nella nostra lingua esistono più parole per dire riso che per dire amore, devo aggiungere altro?

  I nostri problemi sono cominciati subito: mi chiedeva continuamente di lasciare il lavoro, di solito le mogli lo fanno tutte dopo il matrimonio, negli uffici trovi solo le vedove o quelle abbandonate… D’altronde è difficile reggere i ritmi imposti dal tuo shujin, la cena deve essere pronta esattamente appena torna dal lavoro e la casa perfettamente pulita, ma devi pure aspettarlo con la birra fresca appena esce dal bagno e il panno caldo per pulirgli il viso e le mani. Lavorando tutto il giorno io facevo le acrobazie per essere all’altezza… Dopo un mese mi sono dovuta licenziare.

  Ma nonostante gli sforzi non c’era nulla che andasse bene, e ogni volta era un pugno o uno schiaffo. Parlavo a voce troppo bassa? Non è femminile! Un bel calcio. Troppo alta? Che gridi, sei a casa, non in un call center! E scattava la punizione: chiusa in bagno per tutta la notte. Mi puniva. Continuamente. A lui piacevano le punizioni e anche degli strani film, ne aveva una collezione enorme e mi costringeva a vederli tutte le sere, io non volevo, mi turbavano, anzi mi spaventavano proprio. Sono quei video con le ragazze legate nei letti d’ospedale, con fasce, garze, gessi. Le bambole rotte le chiamano, le Kegadoru. Vivono schiave dei medici e degli infermieri che le abusano in continuazione, le violentano, insomma gliene fanno passare di tutti i colori e alla fine queste poveracce muoiono. Molti uomini si eccitano così, anche mio marito. Questi video sono molto di moda e le ragazze si fasciano dalla testa ai piedi per compiacere i loro fidanzati, una cosa veramente macabra ma ho dovuto farlo anche io, per lui, mi chiamava la sua bambola rotta e mi costringeva a fare l’amore così, piena di bende dappertutto.

  Non era un bel gioco. E per fortuna è durato poco. Mi ha strangolato con una benda troppo stretta al collo, quando sono arrivata in ospedale ero così fasciata che pensavano venissi da un altro reparto.

  Per fortuna proprio appena sono morta è passata una nuova legge sulla sepoltura, prima le mogli erano costrette a farsi seppellire nella tomba di famiglia dei loro mariti, insieme a suoceri e cognati, ora finalmente nella parte nuova del cimitero di Aoyama accettano anche tombe di donne sole, e almeno ho evitato la tortura di riposare in eterno accanto a sua madre… Ora finalmente sono una single con una bella lapide personale che porta il mio nome da eterna ragazza, Tomoko, che nella nostra lingua vuol dire «figlia della saggezza».