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Ed eccola, Europa: la ragazza che aveva fatto perdere la testa a Zeus che si era trasformato in toro bianco

 

Ho visto lune gravide partorire dubbi minimi nell'ora del vento impetuoso. Che paura che fa la notte degli uomini troppo sicuri. Ti svegli che ti hanno costruito un muro in faccia e addio albe colorate e gentili. Che paura tutto questo pragmatismo. Chi li ha messi al mondo a suon di odio? Siamo tutti sotto lo stesso cielo le notti che le lune enormi e gialle baciano gli occhi dei migranti e dei cani. Il vento ne trascina lontano le voci fino a farle cadere giù, dentro le fauci bianche dei mari ruvidi e minacciosi che le risputano indietro in forma di canto di sirene. In tivvù un bufalo e un uomo risalgono l'Italia. Bella e perduta. Come le lune gravide delle notti insonni, col vento impetuoso che liscia la peluria alla terra, le segna il verso della chioma per farla bella non appena giunge l'alba. Ricordo la preistoria con la scimmia della Rift Valley: senza più alberi s'era messa a camminare, a correre verso il nord, verso l'Europa. Ed eccola, Europa: la ragazza che aveva fatto perdere la testa a Zeus che si era trasformato in toro bianco. Era bastato un invito insistito a salire in groppa. Via, lontano. Quant'è lontana Europa quando la marea toglie fiato al viaggio. Eppure è bella la chioma d'Italia nel meridione mezzo svuotato, col grano biondo che la ricopre d'oro sacro.

E poi che Italia sarebbe se è solo l'Italia dei cortili vuoti? Mancano le voci acute dei bambini. Sono diventati subito adulti inghiottiti dalla fuga necessaria. Li ho visti bene. Stanno negli ingranaggi della modernità. Una modernità di lavoratori dove capita. Dove c'è posto. Chi resta e mette radici forse rischia di meno. La globalizzazione ne ha fatto bolo per digerirne utopie vicine. La fuga è rimasta. Antilopi che scappano fino a cadere nel metroquadro di un lavoro a cottimo spacciato per lavoro da lavoratore specializzato.

Ho visto bambini senza l'esperienza delle ginocchia sbucciate. Senza la soddisfazione del fare al tocco per formare due squadre. Li ho visti soli dentro quel tumulto luminoso della Rete.

Ho visto adulti piccoli come bambini e bambini grandi come vecchi. Questo è il tempo liquido che ci vede tutti in acqua. Annaspiamo. Qualcuno gioca a toglierci le boe di sotto. Sembra che si diverta a fare la parte del pesce pagliaccio: the show must go on. I corpi inermi sparpagliati per il Mediterraneo sono dei figli di quelli che, finché hanno potuto, sono rimasti nell'Africa da cui noi invece scappammo per sottrarci ai felini affamati. Sono della nostra stessa pasta: il dna è l'imprinting delle stelle. Non cambia poi tanto. Gli svedesi sono africani che hanno smarrito la protezione 50. Gli africani sono migranti come noi. Anche se fanno diete dimagranti sugli scafi che li dondolano fino a rovesciarli. Cadono come cade il campione al mondiale di calcio. Anche loro sognano di starsene seduti davanti al rettangolo che unisce i popoli nel tifo sfrenato, nell'urlo bambino, nell'abbraccio spensierato. Ma giocano nel silenzio annoiato del Mediterraneo senza arbitro. Se la fortuna è fallosa, nessuno le fischia rigore contro.

A che cosa è servito studiare? A darci maschere, ruoli, potere? A questo serve dunque l'istruzione? A darci un quadernino di competenze per inneggiare certezze patriottiche. Non mi arrendo. Non mi so arrendere a quest'ennesima caccia alle streghe. Mi serve la purezza della notte. Mi servono i pensieri di Morin per ricominciare a educare. Mi servono lune giganti con cui scendere a patti. Lune silenziose, come quelle dei poeti. Non mi servono le competenze fasulle delle crocette delle risposte chiuse. Mi serve la competenza delle ginocchia sbucciate e delle lacrime. Anche se alla fine rimangono asciutte. Dovremmo aprire scuole nuove, scuole buone più che buone scuole. Non questo grado zero di sapere distillato che non ha alcun sapore.