L'ANALISI. L'Italia e quel rapporto antico e crescente con la corruzione

L'ANALISI. L'Italia e quel rapporto antico e crescente con la corruzione
La percezione della corruzione in Italia è cresciuta notevolmente, come
segnala l’ultimo rapporto di Trasparency International. Siamo retrocessi
di 10 posizioni tra le nazioni più virtuose, classificandoci al 52esimo posto.
Al di là di una facile polemica con l’attuale governo per lo smantellamento
delle misure anticorruzione adottate negli anni precedenti, risulta
confermato un trend che l’Istat aveva già indicato: almeno 1 milione e
200.000 famiglie italiane hanno subito richieste di denaro, di regali o di
altri benefici per ottenere servizi, autorizzazioni o posti di lavoro. A un
milione e 116.000 persone è stato offerto di comprare il loro voto in una
elezione. L’8,3% della popolazione è venuto a conoscenza di un
pagamento in cambio di un lavoro in un’azienda privata o nei concorsi
pubblici.

Certo, una cosa è pagare per un certificato, per una prestazione, per la
pensione, per un posto di lavoro, altra cosa è accaparrarsi grossi appalti di
opere pubbliche e forniture di servizi in cambio di una tangente. Per questo
motivo gli studiosi distinguono la “piccola corruzione” dalla “grande
corruzione”. Nella prima il confine con la clientela politica e
amministrativa è sottilissimo, quasi inesistente; il favore ottenuto non
viene considerato un diritto ma monetizzato o ricambiato con voti.
Nella grande corruzione, invece, sono coinvolti quasi sempre imprenditori,
decisori politici o alti burocrati, cioè parte della classe dirigente del Paese.
Se nella piccola corruzione si riscuotono somme esigue, nella grande ne
girano di cospicue, in quanto viene stipulato un vero e proprio contratto
informale di affare: si riceve per concessione illegale quello che non si
potrebbe avere se funzionasse seriamente la competizione di mercato.
In linea di massima, la piccola corruzione ci parla della percezione
diffidente del funzionamento dello Stato da parte dei suoi amministrati, la
grande ci racconta del funzionamento malato della politica e del mercato.
Di fronte a questi dati la domanda semplice è questa: perché la corruzione
ha così lunga vita nella nostra storia nazionale, come mai resiste ad ogni
epoca, a ogni regime politico? Come mai non si riesce a trovare niente di
veramente dissuasivo, niente che provi a estirparla nella nostra vita
quotidiana?

La spiegazione può sembrare banale: si è formato nel tempo un vero e
proprio “ordinamento giuridico” alternativo a quello ufficiale, messo in
piedi da coloro che rappresentano lo Stato e che dovrebbero farne
applicare le leggi, accettato da coloro che dovrebbero difendere il corretto
funzionamento del mercato. Per una parte non secondaria degli
imprenditori pagare tangenti è ritenuto uno strumento lecito di
concorrenza.

Riconsiderando la nostra storia nazionale alla luce di una così forte
legittimazione della corruzione, non si possono ignorare tre elementi di
fondo. Il primo riguarda il peso che lo Stato ha avuto nel promuovere lo
sviluppo capitalistico italiano. Il secondo riguarda la modalità in cui si
sono formati la burocrazia e gli apparati amministrativi. Il terzo riguarda il
peso che la clientela politica ha avuto nell’abbassare il senso dello Stato
nei cittadini. Senza indagare appieno il ruolo di questi tre fattori, è difficile
rispondere alla domanda sul perché in Italia ci sia più corruzione rispetto
agli altri paesi occidentali.

All’indomani dell’Unità d’Italia il ceto politico aveva lo sguardo rivolto al
decollo industriale di Inghilterra e Francia, dalle quali eravamo indietro di
almeno 50 anni. Lo Stato non solo doveva creare le condizioni migliori per
un allargamento del mercato attraverso le infrastrutture e politiche daziarie
per bloccare la concorrenza estera, ma doveva entrare in campo in prima
persona per ridurre l’handicap con le altre nazioni industriali.
Questa giusta preoccupazione si spinse, però, fino al punto di piegare lo
Stato alle esigenze dell’economia e a farsi sua stampella. Una modalità che
peserà fortemente nel successivo sviluppo di fine secolo, nel periodo
fascista e nel secondo dopoguerra, delineando un alto tasso di dipendenza
dell’economia dalla politica. Lo Stato, a tutti i livelli, si farà mercato e si
mercanteggerà al suo interno. E, di conseguenza, mai la classe
imprenditoriale si presenterà nel suo insieme come corpo sociale
indipendente, ma solo come gruppo di pressione. In questo senso, “Mani
pulite” non rappresenta una semplice degenerazione ma un approdo
estremo nella capitale industriale del Paese (Milano) di una lunga storia, di
una cultura industriale che non si era mai resa autonoma dal potere
politico.

Un altro elemento storico è il rapporto tra pubblica amministrazione,
politica e partiti. In Italia c’è stata una continuità impressionante tra i
nuovi regimi politici che si affermavano e i vecchi che si esaurivano. Nel
1861 si conservarono i vertici dello Stato piemontese, il fascismo si
avvalse degli apparati di quello liberale, così come la Repubblica conservò
i vertici burocratici del periodo fascista. Una continuità non tesa a
garantire un apparato efficiente e super partes ma caratterizzata proprio
dall’essere “parte”, cioè immediatamente malleabile per le esigenze dei
nuovi poteri. Infine, va considerato la pratica clientelare in politica. La
corruzione in Italia è figlia della clientela, anche se ha modi di agire differenti.
Cos’è in fondo la clientela? È nei fatti considerare le funzioni pubbliche nella
totale discrezionalità privata. Dietro ogni politico corrotto c’è sempre
un’abitudinaria pratica clientelare.

Ma la corruzione, in un Paese a forte presenza mafiosa, apre le porte della
pubblica amministrazione anche ai violenti. Ci sono, infatti, affinità forti
tra una certa politica e la mafia, cambiano solo le modalità di operare (con
la violenza i mafiosi, con il voto i politici). Dentro la cultura della
privatizzazione del pubblico è quasi impossibile tenere fuori gioco i
mafiosi. C’è, evidente, una vicinanza, una sintonia tra il sistema clientelare
nell’uso delle risorse pubbliche e il sistema mafioso: il collante è la
corruzione, con la quale hanno dimestichezza entrambi. La corruzione per
i mafiosi rappresenta la possibilità di ottenere quello che vogliono senza
dover ricorrere ordinariamente alla violenza e suscitare l’allarme delle
forze dell’ordine. Agli imprenditori violenti non interessano gli onesti,
vanno alla ricerca dei loro simili per concezione del bene pubblico; li
fiutano, li contattano e li condizionano. E ne trovano a bizzeffe. Ecco
perché la correttezza e l’onestà sono in Italia qualità sovversive dell’agire
politico.