ruolo centrale com’è normale che sia per la regione italiana che ha
conosciuto nell’ultimo cinquantennio il più impressionante balzo in avanti
rispetto alla sua storia precedente. Quest’area del paese, partendo da una
condizione di arretratezza economica che sembrava inarrestabile, si è
trasformata in uno delle più dinamiche e industrializzate della nazione.
Infatti, se l’emigrazione di massa è la spia più evidente della povertà di
una popolazione, Il Veneto è stata in assoluto la regione con il più alto
numero di emigrati rispetto a qualsiasi altra. In un secolo (1876/1976) sono
andati via 3 milioni e 300mila abitanti, mentre nello stesso periodo dalla
Campania, ad esempio, sono partiti “solo” 2 milioni e 800mila abitanti.
Insomma, il Veneto, contrariamente a quello che si è consolidato
nell’immaginario sull’emigrazione italiana, è stata la prima regione ad
essere interessata in Italia ad un esodo di massa. Ma già prima del 1866,
anno dell’annessione al nuovo Stato, da questa regione si erano mossi
migliaia e migliaia di persone con destinazione i territori più vicini
(Lombardia, innanzitutto) e quelli dell’impero Austro-ungarico e della
Germania. In seguito, furono le Americhe la principale meta dei veneti, in
particolare gli Stati del Sud. Tra il 1876 e il 1900 dal Veneto partirono ben
940.711 abitanti, cioè il 17,9% dell’intera popolazione. E altri 882.000 tra
il 19001 e il 1915, mentre il grande esodo meridionale cominciò dopo
l’adozione delle misure protezionistiche a fine Ottocento che tagliò fuori
l’agricoltura meridionale dalle esportazioni all’estero, in particolare in
Francia, costringendo alla fame braccianti e contadini che scapparono in
massa all’estero.
Il record emigratorio del Veneto non è durato poco. Nel periodo 1911-1914
questa regione deteneva ancora il primato: 3.111 espatri ogni centomila
abitanti, seguito dall’Abruzzo (2.857) dalla Sicilia (2.270) e dalla
Campania (2.270). Nell’immediato Secondo dopoguerra da questo
territorio sono emigrati quasi 250.000 persone, più di Campania e Sicilia
messe insieme (236.000).
Se, dunque, l’emigrazione ottocentesca e novecentesca è stata la spia
dolorosa delle difficoltà a procurarsi da vivere nel nuovo Stato, si può dire
che la regione a maggiore disagio nella storia italiana (fino al boom
successivo) è stata, appunto, il Veneto. Per più di un secolo le sue terre
hanno conosciuto un’arretratezza economica, un abbandono, uno
spopolamento simile, se non maggiore, ad altre aree meridionali. Ancora
nel 1952 il reddito per abitante era pari al 59% del Piemonte e al 55% della
Lombardia. Nel decennio successivo non ci sarà più emigrazione da questa
regione, che comincerà a fare dei passi avanti notevoli, mentre si
continuerà ad andare via dal Sud. Nel 2022 il Pil per abitante del Veneto è
stato di 37.238 euro, rispetto ai 21,653 dell’intero Mezzogiorno.
Quindi, nel giro di poco più di un secolo, una delle regioni più povere
all’indomani dell’unificazione italiana è diventata una delle aree più ricche
e produttive della nazione. Le vie dello sviluppo sono impervie e la storia
concede nel tempo delle chance e delle opportunità ad ogni territorio al di
là delle condizioni di partenza. Un caso, dunque, da studiare
approfonditamente nel quadro del discorso sugli assetti istituzionali che la
nuova nazione scelse all’indomani del 1861 e all’indomani del 1970 con la
nascita delle regioni.
Secondo la propaganda leghista, il successo del Veneto degli ultimi
decenni (come di altre regioni del Nord) sarebbe dovuto unicamente alle
qualità dei suoi abitanti e dei suoi imprenditori, oltre che alla qualità delle
sue istituzioni, in particolare di quella regionale. Indubbiamente le cause
“soggettive” hanno la loro parte nella storia economica, ma se lo sviluppo
di un’area e l’arretratezza di un’altra sono spiegabili solo con le
caratteristiche dei popoli o in base alle diverse qualità umane, civili e
imprenditoriali innate o solo dal funzionamento dei poteri locali, perché
mai i veneti hanno aspettato tanto tempo (più di un secolo) per compiere
questo salto? Vuol dire che sono stati bravi solo a partire dagli anni
Sessanta del Novecento? E prima, quando per un secolo emigravano in
massa, erano forse degli svogliati e nullafacenti come poi hanno
cominciato ad apostrofare i meridionali quando il benessere è stato sempre
maggiore dalle loro parti e meno al di sotto del Garigliano?
In conclusione, è proprio il Veneto, dunque, a mettere in discussione la
teoria dello sviluppo diversificato sulla base di una specie di “meritocrazia
territoriale”, o della presenza di qualità etniche e culturali diverse a
seconda della popolazione o grazie all’autonomia delle regioni.
Secondo i leghisti, i veneti sono artefici del loro benessere, così come lo
sono tutti i “padani”. mentre i meridionali sono complici della loro arretratezza.
Riguardando con serietà alla storia dell’emigrazione italiana, questa
spiegazione è sostenibile? E rispetto alle qualità morali superiori dei
veneti, è compatibile il fatto che il più grande episodio di corruzione che
ha riguardato le regioni nel campo dei lavori pubblici è avvenuto in Veneto
con lo scandalo del M.O.S.E., la diga mobile costruita contro le
inondazioni di Venezia che ha visto finire in galera l’ex presidente
Giancarlo Galan?
Una seconda interpretazione, poi, attribuisce la causa del boom proprio
alla nascita delle regioni nel 1970. È valida questa tesi? Ma è noto
che la crescita economica del Veneto, come di altre aree settentrionali, è
precedente al pieno dispiegarsi dei poteri e delle competenze regionali.
Molto di più hanno contribuito i comuni con alcune loro scelte di aree
industriali messe a disposizione degli imprenditori e con una serie di
servizi indispensabili per il decollo industriale, come anche il caso
emiliano-romagnolo dimostra. Tutt’al più le regioni hanno accompagnato
uno sviluppo che si stava producendo per altra via, ma non lo hanno
determinato, anche nel caso del Veneto, dove sicuramente l’apparato
amministrativo ha dato una migliore prova di sé rispetto ad altre aree
settentrionali, centrali e meridionali.
Il ritardo economico non è un fatto antropologico, dato una volta e per
sempre. Non appartiene alla razza, all’indole o al carattere, e non è affatto
una virtù del regionalismo. Le differenze tra le due aree del paese non sono
ricollegabili né a cause remote (altrimenti che dire del Veneto fino al
1960?), né a una presunta superiorità etica (che dire di Galan?). Scrivono
giustamente gli studiosi Vittorio Daniele e Carmelo Petraglia nel libro
L’Italia differenziata. Autonomia regionale e divari territoriali
(Rubbettino) che il nesso tra maggiori poteri regionali e il dinamismo di
alcune aree è assolutamente indimostrabile. Una maggiore autonomia
locale non incide di per sé sullo sviluppo economico di un’area. Il Veneto
di oggi deve molto di quello che è alle opportunità derivanti dall’apertura
di un grande mercato sovranazionale e sovraregionale al quale, anche per
capacità dei suoi amministratori e dei suoi imprenditori, ha saputo cogliere
pienamente le opportunità. Ma quelli che un secolo prima emigravano non
erano né incapaci né meritevoli dell’arretratezza di allora. Né lo sono
quelli che oggi si trovano in difficoltà.