E in Italia fu lotta alla mafia senza il contributo dei servizi segreti

E in Italia fu lotta alla mafia senza il contributo dei servizi segreti
Quando decisi di scrivere un libro sulla criminalità minorile a Napoli, mi
ricordai di un articolo di Giancarlo Siani sui cosiddetti “muschilli”, i
ragazzini usati per consegnare dosi di droga o trasportare armi senza
correre il rischio di essere imputabili. Il pezzo di Giancarlo mi aveva molto
colpito: non era un saggio, non era un articolo lungo ma vi avevo trovato il
tono che ritenevo necessario per affrontare un tema così delicato: l’empatia
verso questi bambini a cui si facevano compiere azioni che i criminali
adulti ritenevano pericolose per sé stessi, un atto vigliacco prima che
immorale e illegale. Nell’articolo si raccontava di una nonna capace di
utilizzare il nipote di 11 anni come postino di droga per i propri clienti,
anello terminale di una catena criminale che strumentalizzava anche
l’affetto parentale e lo trasformava in affare o in mezzo di sussistenza.

Vedendo poi la data in cui l’articolo era comparso su Il Mattino, mi accorsi
che si trattava del 22 settembre 1985, il giorno prima della sua uccisione
per mano di camorristi, su indicazione del clan dei Nuvoletta, affiliato alla
mafia siciliana, e di Totò Riina. Giancarlo aveva fatto intendere in un
pezzo precedente di cronaca che l’arresto del latitante Valentino Gionta, il
capoclan di Torre Annunziata, era avvenuto nelle zone controllate dai
Nuvoletta e, quindi, era possibile che i boss di Marano lo avessero
segnalato alle forze dell’ordine. Da qui, su suggerimento di Riina, la
decisione di ammazzarlo per smentire che i Nuvoletta fossero degli spioni.

Quello sui muschilli era stato il suo ultimo articolo ed era dedicato ad una
particolare condizione dei minori in Campania. Giancarlo era intransigente
verso i politici che alimentavano la camorra e godevano elettoralmente del
suo sostegno (Marco Risi nel film Fortapàche ne ha colto tutta l’ipocrisia
nella scena del comizio dell’allora sindaco di Torre) ma voleva indagare
sulle ragioni profonde che ne determinavano il successo. Nel suo articolo
c’era rabbia per la nonna e attenzione partecipata per il ragazzino.
Insomma, come aveva già ampiamente sostenuto nei suoi articoli sulla
devastante crisi industriale che aveva colpito l’area tra Torre Annunziata e
Castellammare di Stabia all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, per il
giovane cronista il crimine speculava sulla fragilità economica delle
famiglie in difficoltà e rappresentava la spia violenta di una grave
malessere di contesto, prima che individuale.

A Giancarlo facevano tenerezza quei minorenni che si muovono
nell’incerto confine tra innocenza e violenza, tra ansia di crescere e
aggressiva strafottenza, tra arte di arrangiarsi e quella di sopraffare. La
lingua napoletana ha prodotto alcuni dei termini più efficaci per raffigurare
questi ragazzini abbandonati e intraprendenti già pronti a percorrere le
strade della violenza, da guaglione a picciotto, da sciuscià a scugnizzo, da
muschillo a muccuso (ragazzini così piccoli che non sanno pulirsi dal
muco che gli scende dal naso). Non monello, bullo, discolo, ragazzaccio,
appellativi usati in altre parti d’Italia. Come se nella realtà di Napoli e del
suo esteso hinterland un minore non potesse permettersi una semplice crisi
di crescita, un disagio della pubertà, una devianza provvisoria prima della
maggiore età senza necessariamente finire– con elevate probabilità – nelle
braccia degli adulti camorristi.

Anche in altre parti d’Italia la delinquenza dei minori si presenta come un
serio problema, ma nell’area napoletana assume le caratteristiche di
emergenza sociale e culturale, densa, difficile e drammatica. Essa non
riguarda solo la città di Napoli ma tutto il suo estesissimo hinterland, dove
si sono ripresentate le stesse condizioni predisponenti della capitale. Torre
Annunziata, la cittadina dove Giancarlo ha svolto quasi tutta la sua attività
di giornalista precario, è stata ed è una “riuscita” fotocopia dell’esplosività
sociale di Napoli.

Qual è la particolarità della criminalità minorile napoletana che colpiva
Siani? Sicuramente il rapido passaggio dai delitti di strada a membri dei
clan di camorra. Non è una regola, ma della camorra è più probabile che
diventi membro un figlio di un sottoproletario che il figlio di un borghese.
Non è un teorema, ma nella camorra è più probabile che entri a far parte un
ragazzo che ha abbandonato la scuola piuttosto che uno che la frequenta
regolarmente. Non si entra nella camorra per parentela, ma è più probabile
che vi trovi posto un familiare di chi è stato già in carcere. Non si entra
nella camorra solo perché da minorenni si è commesso qualche reato,
certo, ma è più probabile che un minore che è passato per le carceri
minorili vi venga reclutato.

La differenza che segnalava Siani era data, poi, dal fatto che la droga
consentiva dei profitti così alti da non potersi paragonare a nessun’altra
attività illegale del passato. Il contrabbando, il lotto clandestino, il calcio
scommesse, la ricettazione di merce rubata, permettevano, certo, a una
piccolissima élite di arricchirsi ma soprattutto a tanti altri che vi ruotavano
attorno di sopravvivere e di “portare il pane a casa”. Con la droga di
massa, invece, il circuito dell’arricchimento si era enormemente allargato,
mentre lo scugnizzo di un tempo si arrangiava tra elemosina, furto, scippo,
lavoro precario, e la violenza non era così abituale.

Questa tendenza si è consolidata nel tempo. Oggi dentro l’economia della
droga operano dei narco-giovani che non hanno più niente a che fare con
gli scugnizzi di un tempo. Mai nel passato si poteva fare un salto così
veloce dalla povertà e dalla precarietà verso la ricchezza. È questo dato
che ha cambiato nel profondo il rapporto tra disagio minorile e criminalità.
E Giancarlo lo aveva intuito. Senza saper fare niente di complicato, si può
avere accesso a quei consumi che per anni i minori hanno sognato e a una
vita da “invidiati”. Il reclutamento non avviene attraverso una carriera
criminale ben distanziata nel tempo: si passa dallo scippo e dal furto
all’omicidio e allo spaccio di droga in pochissimo tempo, si transita dalla
mini-gang alla partecipazione al clan camorristico nel giro di una stagione.
Il passaggio dal crimine di strada al clan di camorra è più rapido che in
qualsiasi altra mafia. Nessuno di questi giovanissimi vuole restare
“nessuno”, ognuno di loro vuole diventare “qualcuno” a tutti i costi. E la
via criminale è la più aperta e “democratica” rispetto a quelle che (non)
aprono la scuola e il lavoro.

Ho avuto modo di leggere in questi anni gli articoli di Giancarlo a più
riprese, e non solo quelli usciti su il Mattino. Mi sono convinto che se non
fosse stato così violentemente strappato alla vita in quella calda sera del 23
settembre 1985, Giancarlo avrebbe fatto della condizione dell’infanzia e
dei minori nella grande area metropolitana di Napoli una delle questioni
centrali della sua idea di giornalismo e di impegno civile.