di ALDO VARANO - Conosco Michele Albanese, giornalista del Quotidiano, da anni. Abbiamo fatto insieme discussioni, dibattiti, confronti. Sempre con rigore e onestà intellettuale. Siamo amici, con in più la confidenza e le tracce di quell’intimità speciale che si crea tra persone che fanno lo stesso lavoro con la stessa passione e che guardandosi capiscono quali sono e da dove nascono problemi e difficoltà.
Michele lavora in un territorio difficile, complesso, carico di contraddizioni. E’ una vita dura quella del giornalista in quelle condizioni ma Michele ci tiene al suo lavoro e sa che dai suoi racconti viene un contributo importante e decisivo alla sua terra con cui ha un legame denso e carnale. Credo sia questo il motivo che l’ha inchiodato nella Piana dove ha deciso d'impegnare caratteristiche e professionalità di livello alto, dove la vita quotidiana è più difficile e dove bisogna riuscire a leggere bene e con rapidità i segnali e le vicende che ti si snodano attorno.
Non sappiamo (non è neanche importante saperlo) perché è stato deciso di tutelarlo in modo tecnicamente così significativo. Ma se Michele ha accettato, vuol dire che è stato costretto, che anche i suoi sensori l’hanno allertato, vuol dire che era assolutamente indispensabile e necessario intervenire.
Lascio Michele da parte per un attimo. Mi chiedo: cosa significa che in alcune parti della Calabria per fare il proprio lavoro sia necessario essere protetti come in un territorio in cui si svolge la guerra? Quanta strada c’è da fare per passare da una condizione in cui dobbiamo concentrare le energie a difenderci da male a una in cui sia possibile utilizzarle per migliorare la vita di ognuno di noi?
Ha ragione Rocco Valenti, direttore del Quotidiano, quando ricorda che c’è qualcosa di inutile e sciocco nella violenza arrogante contro i giornalisti che non sono mai, neanche in Calabria, Cavalieri solitari destinati alla sconfitta. Dietro Michele c’è, prima di tutto, il Quotidiano, e dietro il Quotidiano, in una catena che al di là di smagliature e polemiche è e resta possente, ci sono altri giornali, altri giornalisti, altre testate ricche di inviati, un mondo intero che alla fine, piaccia o no, censura o no, intimidazioni o minacce, giornalisti uccisi o meno, finisce sempre, comunque e in ogni caso, col fare emergere ciò che le mafie, la corruzione, il mondo losco vorrebbero nascondere. La stampa, al di là di tutte le chiacchiere è un meccanismo irreversibile. Anche Michele è forte di questa catena. Ci pensino gli uomini del malaffare: possono ucciderne cento, mille, tutti quanti? no. E tutto sommato bastano cento passi per raggiungerli e sputtanarli. E’ la stampa, bellezza!!!
Se ne facciano tutti una ragione. In Calabria i giornalisti, tutti i giornalisti, hanno il diritto (certo, assumendosene la responsabilità) di raccontare e sostenere quello che vedono e che capiscono. Talvolta giornalisti e giornali vedono male e capiscono peggio. Ma i soli che hanno potere e diritto d’intervento sono i lettori e l’opinione pubblica che possono cambiare giornale decidendo il successo, il ridimensionamento, il fallimento delle testate. Tutte le altre interferenze sono, sempre e comunque, malate e controproducenti, anche quando sembrano aver vinto.
Ma nella vita a cui Michele è da oggi costretto c’è un’anomalia insopportabile. Quanto tempo ancora saremo costretti noi calabresi a vivere con la ‘ndrahgeta? Perché non l’abbiamo ancora sconfitta? Com’è possibile che in Calabria, a quanto sostengono i giudici, continuino a signoreggiare clan e cosche note allo Stato ormai da decenni? Quanto tempo ancora ci vorrà per vincere e cancellare le cosche più potenti della regione, il nucleo d’acciaio che regge il fenomeno, così come sono stati cancellati i Corleonesi da Giovanni Falcone e i Casalesi dai Pm napoletani, compreso De Raho che giustamente ne ha più volte sottolineato il successo? Perché in Calabria e a Reggio veniamo sempre sconfitti, perché qui non si può o comunque non si riesce?