STORIA. Bellarmino Chiaravalloti: l'aguzzino di Gramsci in affari con Bruno Misefari

STORIA. Bellarmino Chiaravalloti: l'aguzzino di Gramsci in affari con Bruno Misefari
Bellarmino Chiaravalloti: da aguzzino di Gramsci a socio in affari di Bruno Misefari 1. Bellarmino Chiaravalloti e il processo a Gramsci
                                               La merda cchiù si manìa e cchiù puzza (proverbio calabro-meridionale)                                                                                                                             
Gli antichi ci raccomandavano di non rimescolare mai le cose brutte: «Dassa stare Peppareddhu, chi… !» e sciorinavano il proverbio che abbiamo posto in exerga.
Se avessi seguito quella saggia raccomandazione questo articolo non sarebbe mai stato scritto e la biografia misefariana (L'invenzione del ribelle, Reggio Calabria, Città del Sole edizioni 2020) sarebbe rimasta nel mio cassetto.

Tutto riparte da una serie di libretti su «I grandi processi», usciti in allegato a «L'Unità» tra aprile e maggio 1994, il primo dei quali riguardava il processo iniziato a Roma il 28 maggio 1928, davanti al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, contro Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro ed altri venticinque imputati.
Di ciò discorre e documenta Giuseppe Fiori (a cura di, Cronaca di un verdetto annunciato, Roma «L'Unità» 20.04.1994).
Poche udienze, cinque in tutto (28,29,30 e 31 maggio, 1-24 giugno solo per la chiusura del dibattimento e lettura della sentenza che era stata depositata il 4 giugno), in cui i testi fondamentali, quelli a carico degli imputati arruolati tra alti funzionari di polizia, si limitarono a confermare quanto avevano variamente prodotto in sede istruttoria.

Sulle basi di poche e scarne testimonianze poliziesche, senza che venissero ammessi testi delle difese né, tantomeno, che si potesse svolgere alcuna delle tante attività che richieste dagli avvocati difensori (molti d'ufficio), il processo si chiuse con pesanti condanne per quasi tutti gli imputati: Gramsci 25 anni e sette mesi di reclusione, Terracini 26 anni e sette mesi, Scoccimarro 25 anni e sette mesi di reclusione.

Gramsci venne condannato anche grazie ad un rapporto del questore di Torino Bellarmino Chiaravalloti; la doppia «t» tra ultima e penultima sillaba, che compare anche sulla Gazzetta Ufficiale e viene riportata dagli storici, è erronea e non viene registrata nemmeno da Rohlfs nel suo Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria, Ravenna, Longo Editore 1974, ad vocem, ... Giuseppe Fiori, p. 30-31, ripubblica una lettera, inviata dal Chiaravalloti all'istruttore il 29.01.1927, nella quale si denunciavano due precedenti dell'imputato sardo, uno dei quali era per detenzioni di armi di esplosivi.
Che l'accusa del questore fosse stata determinante per la condanna di Gramsci viene confermato da una nota a un lungo studio di Antonio Gasbarrini dedicato a Silone (L'informatore Silone ed i mediatici scoop degli storici Dario Biocca e Mario Canali, in «Tempo Presente» dicembre 2015, nota 43 in calce al saggio):

   "Il ruolo principale nella costruzione del castello accusatorio contro Gramsci e gli altri imputati non fu svolto dalla questura di Roma [e perciò da Bellone, n.d .a.], bensì da quella di Bologna, diretta da Alcide Luciani, il quale si avvaleva della collaborazione del funzionario Riccardo Pastore. Fu infatti Riccardo Pastore a denunciare Gramsci alla magistratura, con rapporto 27 settembre 1926 diretto al procuratore del re della città, per delitti contro i poteri dello stato. […] Assai grave per Gramsci fu la deposizione testimoniale del questore di Torino, Bellarmino Chiaravallotti, rese al giudice istruttore Macis, l’11 giugno 1927, nella quale accusò il dirigente comunista di avere a disposizione armi conservate in luoghi segreti, in vista di un’eventuale insurrezione contro lo Stato. […]".
In ogni caso il Chiaravalloti, come buona parte dei testi d'accusa, ribadì in aula quello che aveva detto agli inquisitori: «Per i testi del PM Chiaravallotti Bellarmino, Conti Ercole e Belloni Guido, il verbale registra solo: Conforme ai rapporti e alle deposizioni in atti». (G. Fiori, pag. 120) 2.


   2. Ma chi era Bellarmino Chiaravalloti?
Originario di Davoli (CZ), Bellarmino Chiaravalloti, entrò in Polizia in piena Grande Guerra e «Per merito» (cioè senza concorso) e, quasi certamente, per evitare la ben più pericolosa alternativa di essere chiamato alle armi e destinato in zona di guerra: la sua assunzione avvenne con Decreto Luogotenenziale del 16.03.1916 che acquistò vigore di legge sulla Gazzetta ufficiale del Regno di Italia del 2 luglio dello stesso anno: destinazione, presso la Direzione Compartimentale delle Ferrovie dello Stato. 
Insomma un calabrese «riguardato» del XX secolo e, dunque, «imboscato» presso la più florida delle aziende statali. Da allora il nome di Chiaravalloti ricorse su altre Gazzette Ufficiali del ventennio fascista per poi scomparire (Epurazione? «Buen retiro» con ottima pensione nei suoi possedimenti calabresi?) da qualsiasi fonte di stampa nel secondo dopoguerra.

Un recente lavoro accademico (Università degli studi di Verona, tesi di Dottorato di ricerca in Scienze storiche e antropologiche Ciclo XXIII, 1 gennaio 2008 - 31 dicembre 2010, A. Dilemmi, «Si inscriva, assicurando». Polizia e sorveglianza del dissenso politico. Verona, 1894- 1963) ci presenta il Chiaravalloti, ormai questore a Treviso (p. 80) che, in quel di Verona, sostituisce per appena un mese (p. 378) un collega «giolittiano» a fine carriera e si trova a fronteggiare, proprio il giorno della marcia su Roma (28 ottobre), un assalto fascista alla questura, alla prefettura, alla caserma dei vigili del fuoco nonché alla redazione del quotidiano cattolico «Il Corriere del Mattino».
L'azione fascista ha successo e al neo-questore, che aveva assunto un atteggiamento morbido se non dialogante con gli squadristi, non rimane che fare il bilancio del saccheggio e delle cose rubate, rectius rapinate, dalle squadracce: cappotti, borse da donne, portafogli, orologi, armi da fuoco (fucili, moschetti, pistole) e via discorrendo (A. Dilemmi, p. 99- 100).

Inappuntabile il commento dello storico: I rapporti del nuovo questore Chiaravallotti e dei graduati e funzionari incaricati della difesa dei due edifici (…), tutti segnati dall’esigenza di allontanare da sé eventuali responsabilità a fronte di una situazione di evidente incertezza e contraddittorietà, sono una testimonianza illuminante sullo stato dello “spirito pubblico” al momento della presa del potere da parte del fascismo. (p. 98)

3. Chiaravallotti e Bruno Misefari: una società progettata e mai decollata a. Gazzetta Ufficiale del 17.10.1924: Chiaravalloti è Questore di PS; b. GU primo marzo 1930 Diploma al merito della Redenzione Sociale su proposta del Ministero della Giustizia e degli Affari di culto; c. GU del 22.03.1933, a Chiaravalloti era stato conferito il prestigioso incarico di Ispettore Generale di P.S. presso la Casa Reale, quindi a contatto quasi quotidiano con Vittorio Emanuele III e i suoi intimi. Quella posizione prestigiosa non acquieta il de cuius, anzi ne esalta le altre attività. In data 8 marzo 1933 Misefari, prima ancora che la nomina del Chiaravalloti fosse compiutamente ufficializzata, scrive alla moglie di essere in partenza per Roma « … per stabilire le modalità dell'accordo per una società fra me e il comm. Bellarmino Chiaravalloti (Questore di Casa Reale, proprietario di un fondo adiacente alle nostre cave di Davoli) per lo sfruttamento del quarzo»; da questo si deduce che i due si conoscessero già e che avevano già stretto un patto tra galantuomini in attesa che il questore trovasse la strada per eliminare dalla scena imprenditoriale Placido Corigliano; costui, un truffatore con cui Misefari aveva prima cercato finanziatori per la sua cava, poi ne era diventato suo concorrente comprando i terreni dove c'era il giacimento di quarzo da cui Misefari sperava di ricavare la svolta ai suoi molteplici ed assillanti problemi economici. Una settimana dopo Misefari scrive direttamente a Spinner prospettando praterie per la nuova attività: «Non avremo più molestie di natura politica o di concorrenza sleale. Credo di ottenere la partecipazione alla nostra società di un alto funzionario del ministero, che ha un fondo limitrofo alla nostra cava ed è di Davoli. Intendo parlarti del Commendatore Chiaravalloti, Questore di Casa reale. Si potrebbe con lui (…) addivenire ad un accordo di società industriale; se così sarà, avremo un ogni e qualsiasi appoggio …» (Lettera 14 marzo 1933 di Bruno Misefari a Spinner, Fondazione Basso, Roma).
Un anno dopo, il 4 marzo 1934, Misefari, che ormai ha trovato un finanziatore svizzero, viene accompagnato dal Chiaravalloti («L'Ingegner Misefari è stato accompagnato dall'Ispettor Cav. Comm. Chiaravalloti che lo conosce molto bene e che è perfettamente a giorno delle nuove che si svolgono») alla presenza di Guido Leto, importante sbirro fascista in servizio presso il Ministero dell'Interno; qui l'ingegnere prima recita a verbale il «de profundis» per il suo passato di anarchico (« … tiene a dichiarare che fin dal 1923 non esplica più attività politica») e poi, perché il suo accreditamento presso le alte sfere del fascismo diventi definitivo, aggiunge di stare «in benevola attesa dello sviluppo del programma sindacalista e corporativo progettato dal Governo per la cui realizzazione vuole anche egli contribuire». Due settimane dopo, l'abiura era andata a buon fine, Misefari scrive alla madre del suo malcapitato finanziatore e, dopo aver prospettato l'esigenza di spendere altre somme nel completamento degli impianti di Davoli e Soverato («con mezzi propri o con altri che lui riterrà opportuni; ma giammai con mezzi italiani»), getta l'amo per trovare come disobbligarsi con l'amico Chiaravalloti: «L'unico socio per ora, e per ragioni ovvie, potrebbe essere il comm. Chiaravalloti.» (lettera del 28.3.1934 al CPC).
Le «ragioni ovvie» non possono che essere relative alle «facilitazioni» e le «tutele» che lo scrivente si aspettava dal regime dopo la accattivante dichiarazione che aveva reso a Guido Leto due settimane prima. Dopo due mesi, 30 maggio 1934, il Tribunale di Catanzaro ordinava a Placido Corigliano il rilascio delle cave in mano a Bruno Misefari, il quale subito predispose un contratto capestro per il finanziatore; costui, impressionato dalle pretese decise di affidare ad una società genovese del settore, la Mackenzie.

La valutazione dell'azienda porto alla scoperta dell'avvenuta dilapidazione delle somme prestate da Spinner all'ingegnere calabrese. «Il re era nudo!» Il Questore e l'Ingegnere cercarono di fare pressione, contro Spinner e i suoi avvocati, sul Capo del Governo attraverso un «memoriale», scritto dal Misefari e consegnato, il 12 gennaio 1935, da Chiaravalloti al potentissimo capo della polizia Arturo Bocchini, con preghiera di recapitarlo riservatamente al Duce: «Dopo qualche giorno - scrive il Chiaravalloti il 9 febbraio 1935, ma la lettera porta il timbro 16 marzo 1935 di accesso al Ministero dell'Interno – La informai, a voce, che, persona degna di fede, mi aveva riferito che, il contenuto del detto memoriale era stato comunicato agli avv. Del Vecchio e Paserio accusati dall'Ingegner Misefari di manovre per stroncare l'industria del quarzo della Calabria. I loschi intrighi e le palesi minacce che i detti avvocati stanno praticando ai miei danni e a quelli dell'Ing. Misefari, sono la conferma di quanto mi è stato riferito …» (CPC).
La vicenda era ormai all'epilogo: Spinner non andò oltre con i finanziamenti, interamente dilapidati dal Misefari che lo citò davanti al Tribunale di Catanzaro; ma, senza i soldi del finanziere Misefari è come un pesce nella rete; cerca di trovare una alternativa al quarzo di Davoli e batte i comuni montani della Calabria Jonica trescando ancora con Chiaravalloti: dal suo taccuino, alla data del 6 novembre 1935, leggiamo: «Colazione al Trono, con posate d'argento, al Casino Chiaravalloti!» Dalla fine del 1935 Misefari si ammalò e gli venne diagnosticato un tumore al cervello, sarebbe morto nel giugno del 1936 a Roma.

Del suo progetto megalomane sono sopravvissute delle mura costruite a mattoni pieni sulla spiaggia di Soverato; dovevano servire, forse, da magazzino per l'esportazione via mare del quarzo di Davoli. Ancora oggi i soveratesi identificano quei ruderi come "u quarzu".