L’Italia non è del tutto immobile. O almeno, non lo è una parte d’Italia. A dirlo è uno studio condotto da tre economisti italiani - Paolo Acciari, Alberto Polo e Gianluca Violante - che hanno dimostrato come nel nostro Paese l’ascensore sociale non è bloccato. Anzi, nel Nord Est le possibilità che hanno i figli di guadagnare più di padri e madri superano addirittura anche i più virtuosi Paesi scandinavi e molte città americane. Diverso è invece il caso del Sud Italia, dove lo status familiare resta determinante per il futuro dei figli. A meno che non si decida di emigrare altrove. Il World Economic Forum, nell’ultimo report sulla mobilità sociale aveva piazzato l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi industrializzati sul fronte del social mobility index. La novità della ricerca italiana – pubblicata sull’American Economic Journal: Applied – sono i dati utilizzati: non più le rilevazioni della Banca d’Italia, ma le dichiarazioni dei redditi di genitori e figli di circa 2 milioni di famiglie italiane, di cui sono state osservate le variazioni nel tempo.
Confrontando i 730 dei figli a 35 anni, è venuto fuori che la mobilità intergenerazionale verso l’alto esiste anche da noi. Dipende (anche) da dove nasci. Certo, chi nasce da genitori ricchi ha il 33% di possibilità di mantenere lo status sociale di famiglia. Mentre un figlio nato da genitori nella fascia reddituale più bassa ha solo l’11% di probabilità di arrivare da adulto nella fascia più alta. Ma questa percentuale varia, e non di poco, anzitutto in base alla provincia e regione di nascita. «I tassi di mobilità verso l’alto sono molto più elevati nel Nord Italia, dove incidono la presenza di scuole di maggiore qualità, famiglie più stabili e condizioni del mercato del lavoro più favorevoli», ha spiegato a Linkiesta Gianluca Violante, professore di economia a Princeton. Ma anche nel Settentrione ci sono differenze: il Nord Est è più mobile rispetto al Nord Ovest.
Nello studio, si trova anche una classifica delle province italiane dove l’ascensore sociale funziona meglio. In cima alla ci sono Bolzano, Monza-Brianza e Bergamo. Le peggiori, nella parte più bassa della classifica, sono invece Catania, Palermo e, per ultima, Cosenza. «La scarsa mobilità del Sud viene alterata nel momento in cui i figli si muovono dal Sud al Nord», spiega Violante. «In questo caso si hanno tassi di mobilità verso l’alto molto alti».
A essere determinante è anche il genere. Dai dati dello studio, emerge che la mobilità verso l’alto è maggiore per i figli maschi: un risultato dovuto alla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro nel nostro Paese. Conta poi anche la professione dei genitori: chi è figlio di imprenditori e lavoratori autonomi ha maggiore possibilità di risalire la scala sociale. Ma il fattore decisivo, più delle condizioni del mercato del lavoro e della stabilità delle famiglie, resta la qualità del sistema scolastico. La scuola è quella che più determina il futuro dei giovani in termini di posizioni professionali e guadagni futuri. In particolare, sottolinea Violante, «sono decisive le scuole materne e le elementari, ancora più delle scuole superiori. I primi anni di formazione del bambino nella fascia 0-7 hanno effetti permanenti su quanto guadagnerà in futuro».
Secondo Uniocamere e Anpal, con il Recovery Plan nei prossimi cinque anni l’occupazione potrebbe crescere fra 1,3 e 1,7 milioni di unità. Si tratta di un incremento medio annuo, tra il 2022 e il 2026, stimato tra 260mila e 340mila posizioni. Mentre il ministro Brunetta annuncia 100mila assunzioni di dipendenti pubblici nel 2022. La Commissione Ue ha intanto rivisto al ribasso la crescita del Pil italiano dal 4,3% al 4,1% a causa dell’inflazione. Mentre il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sottolineato che la ripresa dell’economia è stata decisiva per interrompere l’aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil, che potrebbe scendere al 150%. Visco ha chiesto di proseguire sulla strada del miglioramento dei conti pubblici e di evitare gli aiuti generalizzati all’economia. Infine l’Osservatorio sui conti pubblici italiani ha realizzato un’analisi su come l’invecchiamento della popolazione stia cominciando a pesare anche sull’occupazione. «È evidente che non è più possibile prescindere dalla demografia per analizzare i cambiamenti del mercato del lavoro».