La poesia di Salvino Nucera

La poesia di Salvino Nucera

La poesia di Salvino Nucera: il primo libro

Nella primavera del 2025, in una delle periodiche telefonate che ci scambiavamo, chiesi a Salvino Nucera un elenco delle pubblicazioni a stampa che erano essenziali per uno studio sulla sua formazione e sulla sua complessiva vicenda culturale; il giorno dopo ricevetti una e-mail, datata 18.03.2021, con allegato un curricolo in cui, dopo le generalità, menzionava un secondo nome tra parentesi (Francesco, che però dovrebbe essere il primo e magari «Salvino» era un «nom de plume»), la laurea in Lettere a Messina (26 febbraio 1979), nonché «di essere autore, coautore, curatore, traduttore dei seguenti volumi, quasi tutti bilingui, di seguito elencati»; seguiva un elenco di tredici pubblicazioni che in qualche modo costituiscono l'universo della sua produzione a stampa.

Quell'allegato fu probabilmente inviato all'editore del libro di poesie che era in cantiere («Loghia diaforimèna», Reggio Cal., Apodiafazzi 2021, sul cui colophon appare la dicitura «finito di stampare nel mese di marzo 2021») e che venne riassunto, assieme al titolo definitivo, nella quarta di copertina del nuovo libro.

Nella lettera appariva infatti al n. 13) «Silloge poetica dal titolo Lòghia scorpimèna (diaforimèna). Testo bilingue, febbraio 2021, Apodiafàzzi, Reggio Cal.».

Evidentemente ancora non era stata sciolta l'ambiguità sulla seconda parola del titolo ove «diaforimèna» figurava tra parentesi preceduta da «scorpimena», participio passato del verbo grecanico «scorpizo» che significa «propago, disperdo» ed è quasi sinonimo di «diaforào» poi accolto, sempre al part. passato, nel titolo.

Dunque, incluso «Loghia diaforimèna», i libri di poesia contenuti nell'elenco sono in tutto quattro e da questi dobbiamo partire per la nostra analisi.

Tutti i testi delle poesie sono in grecanico e presentano la traduzione il lingua italiana a fronte.

  • «Agapào na graspo»
  • Questioni formali e metriche

Il libro ha avuto una prima edizione (Reggio Cal., Marra 1987) cui è seguita l'edizione di «Reggio Calabria, Città del Sole, 2011»; si tratta in tutto di 46 poesie, la maggior parte in metro libero: i versi hanno lunghezza variabile, sono privi di rime o di assonanze significative e non sono raggruppati in strofe.

Fanno eccezione quattro testi:

a) p. 20, «Evvjèthi to fengari», «é spuntata la luna», assonanza del primo distico  (feng–àri, fan-àli), rima baciata nelle tre coppie di versi che seguono, tutti uscenti in –ìa (… macr-ìa … vrad-ìa; … fantas-ìa, m-ìa; … ccharap-ìa, … angal-ìa) e  rima baciata nei due distici finali (… gli-cìo, … pri-cìo, … crim-mèni … de-mèni); AA – BB - CC – CC – CC – DD;

b) p. 22 «Anisce t'aftìa», «apri le orecchie», rima baciata al primo distico, (t'aft-ìa, ffil-ìa) assonanze negli altri cinque (cardì-àsu, agàp-isu, trag-ùdi, scot-ìdi, sp-ichì, sc-erì, c-ufì – p-edì, agàp-isu, ffil-iàsu); AA-BB-CC-DD-EE;

c) p. 46, «apospe», «stasera» che presenta i primi quattro distici a rima baciata (card-ìa, charap-ìa; ess-èna, can-èna; macr-ìa, glic-ìa; atim-èno, am-èno) e due  assonanze in chiusura (lambur-ìszi e st-àszi nonché gl-ìfi, t-àfi); AA, BB, CC, DD, EE, FF.

d) p. 60 «i arghìa ti ffilìa», «La festa dell'amicizia», a parte il terzo distico che presenta assonanza tra i le sillabe finali (Gaddhic-ianò, trag-udò), gli altri dieci versi, di lunghezza varia, sono tutti organizzati in distici a rima baciata: Rich-ùdi, trag-ùdi; fil-ìa, sinod-ìa; glic-ìa, card-ìa; ism-ìa, vrad-ìa; fil'ìa, CCalavr-ìa.

I arghìa ti ffilìa                      La festa dell'amicizia

èsi / fìlo/ àn do Ri/chùdi                               Voi, amico di Roghudi

Scèri/t(e) ìp(i) e/nàn tra/gùdi;                     Sapete interpretare una canzone

Ghiòma/t(o) àsc(e) a//gàpi /cè fi/lìa,          Piena di amore e di amicizia

Jà na/ tò cui//tùn-di/ sìno/dìa.                     Perché l'ascolti questa compagnia?

Fìlo/m(u) àn do // Gàd/dhi/ciànò                Amico mio di Gallicianò

ègo /scèro/ tòssa // nà tra/gùdò                   Io conosco tanti canti

Cè ta/ lòghia/m(u) ène// pànda / glìcìa,     E le mie parole sono sempre dolci

Jàtì / mù sci / lìstrusi // àndin /càrdìa.       Perché mi sgorgano dal cuore.

Cè tra/gùda//m(e) ì/smìa,                             E cantiamo insieme

Tùndi / chlìa //vràd-ìa;                                 In questa calda serata

T(i) ène / jòrt/(i)  a//gàpi / cè fi/lìa,             Che è festa dell'amore  e di amicizia

Mè ti /ffònì/ grèki // tì Cca/làvrìa.               Con la voce greca di Calabria.

I quattro componimenti presentano, ciascuno con la sua misura sillabica quasi sempre articolata,  una musicalità accattivante; è come se l'autore, per bilanciare il verso libero di tutte le altre poesie, avesse scelto queste quattro perché fossero cantilenate e tenute a mente con facilità.

Vediamo, sempre a titolo di esempio, la poesia di cui alla lettera c) che, rispetto alle altre tre, presenta una maggiore uniformità metrica (quasi tutti i versi sono decasillabi o endecasillabi) e musicale.

Naturalmente gli accenti tonici, a volte, possono non coincidere con quelli fonetici del grecanico:

apòspe                                            Stasera

àpo/spè em/mèna // mù je/lài car/dìa         Stasera mi sorride il cuore

Ja tin/cìnu/rìi me//gàli //chàra/pìa              Per la nuova grande gioia:

Tò gli/cìo a//pàndi/mà m'es/sèna                il dolce incontro con te

Nà mi / tò sci/pòrei // thèlo ca/nèna           non voglio che lo sappia nessuno.

Pèta / spìchi/mmù //, pè/ta/ mà/crìa            Vola anima mia, vola lontano

Dèsce/ tìn a//gàpi/mù gli/cìa                       Lega il mio amore dolce

Ghìrje / èna/ ddèndro/ àti/mèno                  Cerca un albero fiorito

Jatì/ èchi/ pòddhi// pù tin a/mèno                Che è da molto tempo che l'aspetto.

àpo/spè to/ fènga/rì // lam/bùriszi               Stasera la luna risplende

cè an/dà chi/lìndu// tò meli / stàsci             E dalle tue labbra il miele spande,

àcho/rtàti i/ glòs/sa//mù to/ glìfi                  affamata lo lecca la mia lingua

Chòrte/nì ma/nàcho // òssu / stò ta/fi          si sazierà soltanto nella tomba.

E, a proposito della musicalità, bisogna considerare che il testo greco ne presenta molti esempi non solo nel caso di versi lunghi come gli endecasillabi ma anche, e forse di più, nei versi più corti.

Ancora tre esempi:

  • un ottonario: «Mè cam/bòma//t(a)àsce cri/sàfi» (Con riflessi d'oro), p. 42;
  • un novenario: «E'su/còndo//fèrrise/pànda» (Tu ritorni sempre), p. 44;
  • un endecasillabo «sostenuto» anche nella traduzione in lingua italiana: « ìchai / nà pòr/ pàtiu//chèri / stò cheri», «dòves/sèro //càmminar / màn con / màno»; p. 50.

B) Il titolo

Brevemente sul titolo: «agapào na graspo»; 'nulla quaestio' sulla prima parola che in italiano indica l'azione di amare, «amo» alla prima persona  del presente indicativo.

Su «na graspo» accolgo, con gratitudine, un suggerimento di Paolo Martino: «Il verbo all’indicativo presente è gráfo (γράφω) ‘io scrivo’ in tutta la Bovesia. La forma gráspo non è un altro verbo, ma il congiuntivo presente di gráfo: γράψω ‘che io scriva’. Esso nel calabrogreco subisce metatesi [ps > sp] e diventa na gráspo nell’amendolese, mentre nel bovese subisce assimilazione dando na grázzo. Si tratta di congiuntivi fatti col tema dell’aoristo ἔγραψα: égraspa, égrazza. Il congiuntivo è richiesto dalla preposizione na (ἵνα ‘affinché’ = lat. ut anch’esso col congiuntivo: vogghju u scrivu, vogghju mi scrivu). Le forme derivate dal tema dell’aoristo égraspa (ἔγραψα) non vengono dunque da un altro verbo (raspari e il suo derivato graspari). L’imperativo di Roghudi gráspe! ‘scrivi!’ ritorna anche a Bova e Gallicianò come grazze

C) Il testo a fronte

La pagina 5, introduttiva, di «Chimarri», acefala e non firmata ma con molta probabilità risalente alla penna del comune amico Francesco Tassone, «patron» delle edizioni «Qualecultura», contiene alcune considerazioni sul rapporto tra testo greco e traduzione in lingua italiana a fronte  che meritano di essere segnalate;

… nella lingua greca, … l'apporto dell'identità grecanica dona il sapore della rupe, della vita difficile per gli uomini e per le cose. Nell'italiano più spesso la tonalità tende al medio, a quelle parole che si possono leggere in fretta senza avvedersi del carico di umanità che esse portano al cuore.   

La distinzione è interessante e veritiera perché le poesie sono state pensate in grecanico e poi tradotte in italiano; ne deriva una sorta di allentamento dell'attenzione del poeta proprio nella «traduzione» che, oltre alla «tonalità che tende al medio», a volte accede a scelte lessicali disinvolte e, sia pur raramente, anche non ben ponderate.

Un solo esempio: a pagina 38-39 di «Chimarri» troviamo to spiti tu pecuràru (la casa del pastore), una poesia peraltro molto articolata e virgilianamente bella; tre versi sono dedicati all’«architettura» del piccolo capanno (si parla delle «strutture portanti»): «ìton ghenamèno  // me macrìa cladìa / ce chrondà scila

Nel testo a fronte troviamo:«Era fatta di lungi rami e di lunghi legni»; il poeta  nel testo grecanico usa due aggettivi diversi, «macrìa» lunghi e «crondà» grossi, che si accompagnano a due nomi diversi: più precisamente i «macria cladia» indicano i lunghi rami che, appoggiandosi sui «crondà scila» (letteralmente «legni robusti, grossi») che, posti di traverso e appoggiati sulle pareti lunghe del perimetro della capanna, costituiscono il «letto» su cui viene appoggiata la frasca e la terra che la ricopre per evitare la penetrazione dell'acqua piovana o della neve e per preparare una minima difesa contro il freddo; e, a riprova che i «chrondà scilia» sono legni grossi  e non rami, se prendiamo un buon dizionario grecanico alla voce «scilo» troviamo una fraseologia di una colonna e più in cui vengono elencati gli usi che se ne possono fare: «ècospa ena scilo chrondò, ho tagliato un legno grosso», «Ti abbìsia cànnome me to scilo?» «Che oggetti costruiamo con il legno?», «Me to scilo tis castanìa ècanneto to sulàru me tin suffitta, … ta stantalora, … ta mobilìa, etc» «Con il legno di castagno si costruivano il solaio e la soffitta, … gli stipiti della porta, … i mobili» (Filippo Condèmi, «La lingua della valle di Amendolèa», Reggio Calabria 2006, ad vocem).

D) Le figure retoriche

Le similitudini (pp. 31, 43, 45, 51, 61, 63, 67, salvo altre) e le metafore (pp. 21, 51, 63, 73, 77, 91, salvo altre) sono le figure retoriche dominanti in questo libro aurorale, circa venticinque su quarantanove poesie.

Leggiamo «Sotto i noci» (30-31):

Il sole penetra

in mezzo alle verdi

nuove foglioline

dei noci secolari,

si riflette dentro i tuoi occhi

pieni d'amore,

sopra i tuoi capelli

«che sono simili al miele»,

e sopra le tue carnose

labbra dischiuse

«Rosso fiore di giardino».

Le ginestre  in fiore

emanano vicino a noi

sottile profumo

che entra nello spirito

e ci aiuta a vivere

 con gioia rinnovata.

«Il ruscello, mio vecchio amico»

assieme all'anima mia

Ti intessono festosamente

Una dolce canzone d'amore.

Come si vede in venti versi insistono una similitudine («che sono simili al miele»), una metafora («rosso fiore di giardino») ed una personificazione: «Il ruscello, mio vecchio amico», che intesse, assieme all'anima del poeta, una dolce canzone d'amore per l'amata.

In «Ena ddacli», «Una lacrima», troviamo due belle anafore che occupano ben cinque versi su nove:

Una lacrima:

«fiore che sboccia,

fiore che appassisce»

tra le infinite pieghe

di anime sensibili

di esseri viventi.

«Lacrime di miele,

lacrime di fiele.

Lacrime.»

E) I contenuti

Essenzialità della poesia

«Agapào na graspo» è il primo libro in assoluto pubblicato dall'autore; si capisce dunque la varietà dei contenuti, poi ampliati e ripresi nelle altre pubblicazioni, specialmente in quelle poetiche: a partire dalla dichiarazione di principio che apre il libro (pp. 8-9) «Mi piace scrivere/ … i miei rapporti col mondo,/  / con gli altri uomini /  con me stesso. / … Pramata alithinà / ònera aghènasta/ ti ma ffudùsi na szume /. Agapào na graspo. (Meditazioni realistiche / Fantasie utopistiche /che aiutano a vivere. / Mi piace scrivere»

In chiusura si ripete esattamente il verso di apertura; un chiaro procedimento di epanadiplosi che, replicando il primo verso alla fine della composizione, vuole mettere in risalto e rinforzare la vocazione alla poesia e alla parola scritta, nonché la sua essenzialità  per l'autore.

È appena il caso di segnalare che il testo a fronte del terzultimo verso traduce «ònera aghènasta» con «Fantasie utopistiche»; forse sarebbe stato meglio attenersi alla lettera del grecanico che parla di «sogni non realizzati» che non sempre hanno i dettagli delle utopie.

Per il padre e la madre

La disposizione di Salvino al riserbo lo portava a non discorrere mai con gli amici delle cose di famiglia: sapevamo che il padre gli era morto quando lui era ragazzo e della madre, a mezzo di qualche accenno, traspariva una certa anaffettività che l'aveva portata, dopo morte del marito, a iscrivere il figlio ad un collegio di Reggio Calabria per ivi proseguire gli studi; forse perché il giovine era irrequieto e lei, venuta meno la presenza del marito, si credeva di non poterlo educare adeguatamente.

Salvino include in questa silloge due poesie per il padre e una per la madre mentre  dedica poi ad entrambi il terzo libro di poesie con il minimo indispensabile di parole: «Ai miei genitori / Lorenzo e Nannina» («Anima nel vortice / Spichì sto monostròfiddho», Bova, Edizioni Apodiafazzi 2013, p. 5).

In «Agapào na graspo» viene prima il ricordo del padre che, però, rimane innominato. Anzi l'incipit è quasi un rimprovero: «E'fighese / mas asciàfichese» che letteralmente significa: «Sei fuggito / ci hai abbandonato.» ma che, nel testo a fronte è reso liberamente con «Te ne sei andato / ci hai lasciato».

La realtà, dopo la morte, ha i connotati della notte e dell'oscurità, entrambe simbolo di scetticismo sui luoghi di dannazione, di espiazione o di felicità oltre la vita terrena: «La notte è scura, / non c'è la luna. / Per la strada / non c'è nessuno, / non si vede niente. / Non correre, / non ti spaventare.»

Poi la certezza del comune e ignoto destino: «Verremo anche noi / nella notte scura. / Cammineremo di nuovo / insieme, mano nella mano (ismia, cheri sto cheri). / Andremo avanti nel buio / senza sapere dove; / Saremo insieme / per sempre / nel bene e nel male, / se esistono il bene e il male (an echi calò ce cacò)».

La chiusa, dopo la promessa di raggiungere il padre dove si trova e di condividere con lui bene e male, è sottoposta a scepsi e all'eventualità remota che dopo la morte bene e male si diano (pp. 78-79).

In «Egò c'esù», «Io e te», il poeta allucina in modo straziante il genitore defunto: «Nel buio più profondo / ti ho visto; / nel dolore più grande / ti ho sentito. / Ho visto i tuoi occhi / rossi / pieni d'amore / ho sentito la tua voce / dolce / come il miele. /  Sempre ti vedo / sempre ti amo /nei miei sogni. (« … sta oneràmu») «I tuoi occhi non vedono /  la mia lingua non chiede / perché ti guardo /  negli occhi («i glòssasu  den arotài / jatì se canunao / me tin cardìa scimmèni / ossu st'artàmmia» (p. 89).

E qui facciamo una piccola sosta perché abbiamo incontrato una di quelle leggerezze nella versione sempre riferibili alla minore cura che il poeta dedica al testo italiano; il testo grecanico reca «i glòssasu den arotài / jatì den canunao» che viene reso («Quandoquidem bonus dormitat Salvinus!») con «la mia lingua non chiede // perché ti guardo»; ora il possessivo enclitico non è « –mu», donde «glòssamu», da tradurre con «la mia lingua», bensì «glòssa-su», da tradurre quindi con «la tua lingua»; si noti che anche il senso vuole la sua parte; non è la lingua del poeta che non chiede ma la lingua del padre morto  (glòssasu, la tua lingua) che non chiede perché non può parlare.   

La chiusa della poesia è in linea con i versi che precedono; anzi diventa un urlo di dolore disperato perché destinato ad rimanere senza risposta:

« i cardìamu ti / clei nicta ce mera, / jatì panda cuddhìsci / ma den tis apandài canèna», «il mio cuore che / piange notte e giorno / perché sempre invoca / ma nessuno gli risponde».

La penultima poesia della raccolta, T'arthàmmia ti mmànamu «Gli occhi di mia madre», è dedicata alla mamma.

Ne riproduciamo gli ultimi versi (pp. 96-97):    

 

Panda thorò                                      Sempre rivedo

t'arthàmmia ti mmànamu                   gli occhi di mia madre

san irto szondari,                              quand'era viva,

atha glicia.                                        fiori dolci.

Arte ti den ene pleo                           Adesso che non c'è più

i spichìmu den tragudai pleo.             l'anima mia non canta più.

Il paradiso perduto

Le rimanenti poesie della prima silloge riguardano un complesso di sentimenti che appartengono alla vicenda umana del poeta e che occupano più di un terzo del volume.

Questi sentimenti hanno a che fare con le condizioni particolari dell'autore, proveniente da Chorìo di Roghudi e sfollato assieme ai suoi compaesani per via del pericolo di frane nell'abitato aspromontano, emigrato ad insegnare in Lombardia per circa quindici anni e poi tornato definitivamente in Calabria; condizioni tutte esterne ma che, sicuramente, si intrecciavano con la personalità dell'autore, con la sua psiche  e con la sua vocazione sociale.

Nostalgia del paese, (52-53, 98-99), solitudine (16-17, 20-21, 54-55), malinconia (12-13, 14-15, 18-19)  e amarezza (26-27, 32-33, 35-36, 40-41, 56-57, 86-87, 90-91) sono i temi che occupano di più la mente dell'autore; a volte combinati o sovrapposti fra di loro e con altri ancora, in ogni caso danno l'impronta assolutamente personale alla poesia di Salvino.

La nostalgia è mescolata con la solitudine in o cherò addhàszi – Cambia il tempo:

Macrìa ando spìtimu,                        Lontano dalla casa,

porpatònda manachòmmu                 cammino solitario,

ce canunònda ghiru                          e guardo in giro,

thorò perissà puddhìa,                      scorgo tanti uccelli

ti còftusi to àero.                               che tagliano l'aria.

Màkine ghiòmonnusi                         Macchine riempiono

t'aftìamu asce szimìa.                        le orecchie di rumori.

Den sonno cui ta glicia tragùdìa       Non posso ascoltare i dolci canti

ti ifènusi tundon kerò                         che intessono in questo periodo

ecìnda puddhìa agapimèna               gli uccelli amati

Apànu st'aftimèna                             Sui fioriti

dendrà tu chorìomu.                         alberi del mio paese.

Ma il luogo in cui la mescolanza tematica raggiunge la perfezione è l'ultima poesia che conclude il libro: risze / radici  che riproduciamo interamente:

E rìszemu emìnai ecì                        Le mie radici sono lì

sto chuma irtha ston cosmo             nella terra dove nacqui

ismìa me tin cardìa,                         e anche il mio cuore

me tin glossa to ggoneomu.             e la lingua dei padri.

Risze macrìe ce palèe                      Lunghe e profonde radici

ti efuscòai sto chuma tu kerù            che crescono nella humus del tempo

ce teggionusi, perannònda              e finiscono, al di là

ti thàlassa, sti Grècia.                      del mare, in terra greca

Ecì sto Chorìo pu egennàstina Mega       Là dove divenni grande

eminài glicide ce pricàde.                è rimasto il dolce e l'amaro.

I glicàda tu pedìu                            La dolcezza del bambino

me tossa ònera stin ciofalì               con tanti sogni in testa.

Ti ètreche sta choràfia                     che correva nei campi

apìssu ste pèthuddhe                       dietro le farfalle,

ce eclàpenne sta dendrà                  e si arrampicava sugli alberi

jà na piài                                         a prendere

te ccinùrjie folèe,                             i nidi nuovi

ti ècanne tosso smimìe.                    e faceva danni assai.

I pricàda tu athròpu                        L'amarezza dell'uomo

ti ivre posso ene scerò                      che conosce quanto è duro

to porpatima ti szoì                          il cammino della vita

sta pràmata cathimerinà                 nelle cose quotidiane

chànnonda  ta ònera                       a smarrire i sogni

ce tossa                                           e tante

agapimmèna.                                  cose amate.

Megàli pricàda sìmero                    Grande amarezza oggi

na stathò macrìa                             è stare lontano

jà na echo mia dulìa.                       per avere un lavoro.

Thèlo na condofèrro                        Voglio tornare

pu àfica te rriszemu                         dove ho lasciato le radici

ce na mi tes ivro maremmène.          e non trovarle secche.