scriveva Emil Cioran. Paradossalmente, in Italia le rughe sono
maggiormente evidenti nelle istituzioni più giovani, cioè le Regioni, che
hanno acquisito una centralità nel dibattito politico che la loro giovane
esistenza e il loro scarso rendimento non lasciavano presagire. L’Italia,
infatti, non aveva nessuna tradizione regionale alle spalle. Esistevano,
prima del 1861, 7 Stati di diversa grandezza, ma nessuna Regione attuale è
sorta sul perimetro di quegli Stati preunitari, o perché troppo grandi (come
l’ex territorio borbonico, da cui sono state partorite ben 7 Regioni) o
troppo piccoli, come i Ducati di Parma e di Modena. L’unico territorio
preunitario che si è quasi interamente ritrovato nella dimensione regionale
è quello toscano.
Se 7 erano gli Stati preunitari, le Regioni sono 20. Ben 11 hanno una
popolazione inferiore a quella della sola città di Roma. Una dimensione
così sbilanciata impedisce di per sé una funzione di seria programmazione
territoriale.
A quale precedente, dunque, si dovette far ricorso per delineare i confini
regionali? Addirittura, a una suddivisione utilizzata a fini statistici dal
medico Pietro Maestri nel 1864, che a sua volta riprendeva i confini delle
Regioni militari dell’antica Roma. Dopo la presa di Roma nel 1870, si
aggiunse il Lazio alle 14 Regioni già individuate, che all’epoca inglobava
anche l’Umbria. Durante i lavori della Costituente ne furono individuate
altre tre ai confini dell’Italia: la Valle d’Aosta, il Trentino Alto-Adige e il
Friuli Venezia-Giulia, e fu separata l’Umbria dal Lazio. E si arrivò a 19.
Successivamente, nel 1963, fu apportata una modifica della Costituzione
per scorporare il Molise dall’Abruzzo.
Come è stato possibile che istituzioni senza una storia alle spalle e senza
un radicamento popolare siano diventate nel giro di qualche decennio così
decisive nella politica italiana? È questo uno dei casi clamorosi in cui la
maggiore visibilità di una istituzione non corrisponde minimamente alla
sua utilità.
Guardiamo ai dati sulla divisione della spesa pubblica: 57 % Stato
centrale, 30% Regioni, 8% Comuni, 2% province e aree metropolitane, 3%
altro. Nel giro di pochi decenni le Regioni da “cenerentole” delle
istituzioni si sono trasformate in luoghi di grande potere e risorse. La
tradizione municipalista è stata letteralmente stravolta: Regioni ricche,
Comuni poveri. La cosa assurda è che la spesa regionale è quasi
interamente trasferita dallo Stato, diversamente dai Comuni che debbono
concorrere con le tasse sui servizi alla tenuta dei loro bilanci. I presidenti
di Regione spendono senza doversi procurare le risorse che generosamente
erogano. Attraverso questa assurda condizione di privilegio i "governatori"
hanno assunto un ruolo centrale nella politica italiana e all'interno dei
partiti.
Vediamo in concreto lo scarto tra aspettative e risultati. Partiamo dal
superamento del distacco tra politica e cittadini che fu una delle
motivazioni principali del regionalismo. Nel 1970 votò alle prime elezioni
il 90% degli aventi diritto, negli ultimi anni la partecipazione si è ridotta a
poco più del 50%, con picchi di astensionismo sotto il 40%. In Liguria nel
2024 ha votato il 45, 97% mentre in Basilicata meno del 50%. In Abruzzo
il 52,2% e in Sardegna il 52,4%. Partecipazione ancora più bassa si è
registrata nel 2023 nel Lazio (il 37,20%) mentre nello stesso anno si sono
recati a votare solo il 41,6% dei lombardi e il 48% dei molisani. Nel 2022
hanno votato per il nuovo presidente della Regione il 49% dei siciliani e
nel 2021 il 44,33% dei calabresi. Nel 2014 in Emilia ha votato solo il
37,7% degli aventi diritto! Anche se all’interno di una costante caduta
della partecipazione elettorale, si vota di più nelle elezioni politiche o in
quelle comunali.
Passiamo alla sanità. Lo storico Silvio Lanaro in suo libro (L’Italia nuova.
Identità e sviluppo 1861-1988) ricordava che all’inizio degli anni Ottanta
del Novecento la speranza di vita di chi risiedeva nel Nord era in media di
quasi due anni inferiore rispetto a chi viveva al Sud. Attribuiva quella
disparità alla “mortalità da progresso”, cioè al fatto che lo sviluppo
industriale e lo stress da benessere causavano più tumori e infarti, mentre
un ambiente più incontaminato e meno sfruttato industrialmente, come
quello meridionale, consentiva quasi due anni di vita in più. Oggi si è
letteralmente capovolta la situazione, ma ancora nel 2001 non era affatto
così: i Calabresi, i Lucani, i Pugliesi, gli Abruzzesi e i Molisani vivevano
di più della media nazionale, mentre in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria,
Friuli Venezia-Giulia e Lombardia la durata della vita era inferiore alla
media nazionale.
Cos’è cambiato in così pochi decenni per giungere ad un ribaltamento del
genere? Si può ragionevolmente pensare che possa avere inciso il diverso
funzionamento della sanità dopo il passaggio alle competenze regionali?
Indubbiamente, anche se assieme ad altri fattori. La regionalizzazione
della sanità ci ha resi e ci rende diversi di fronte alla vita e alla morte. La
questione era stata posta in maniera forte già nel 2016 dall’allora
presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi: “I fattori di
rischio per la salute restano distribuiti in modo omogeneo su tutto il
territorio nazionale, la disponibilità e l'accesso ai servizi, invece,
penalizzano i cittadini del Sud. Un esempio tipico dello sbilanciamento
dell'assistenza sono gli screening oncologici. Coprono la quasi totalità
della popolazione in Lombardia ma appena il 30% dei residenti in
Calabria”. Si spiegherebbe così “il capovolgimento dell’aspettativa di vita
degli ultimi decenni, dopo che per oltre un quarantennio il Paese ha
omogeneamente guadagnato in media 2 mesi di vita l’anno”.
Un’altra delle potenzialità tradite dalle Regioni riguarda lo sviluppo
complessivo dell’economia italiana. Certo, annoveriamo 4 territori fra i
primi 50 in Europa per reddito (Trentino-Alto Adige, Lombardia, Valle
d’Aosta, Emilia) ma anche 4 Regioni tra le peggiori 50 (Puglia, Campania,
Sicilia e Calabria). Nel 2000, però, l’Italia contava ben 10 Regioni
classificate tra le prime, e nessuna Regione italiana compariva nella
classifica delle 50 peggiori. Anche in questo campo, le Regioni hanno la
loro responsabilità per la forte incidenza sul debito pubblico e per la loro
scarsa capacità di migliorare i fattori di competitività del sistema. Sta di
fatto che le Regioni non sono servite al progresso del Sud, non sono state
in grado di diminuire la distanza economica e nei servizi con le aree
centro-settentrionali. Con la nascita delle Regioni nel 1970 il divario è
aumentato.
Nate con l’ambizione di riformare lo Stato centrale e di promuovere una
nuova classe dirigente, le Regioni si sono trasformate in uno di principali
ostacoli al miglioramento delle funzioni pubbliche e stanno riproponendo
una rifeudalizzazione della politica, ancora più accentuata nel Sud.
E mentre un tempo i politici regionali non vedevano l’ora di passare ad
altri livelli, oggi è difficilissimo smuovere un presidente dal suo ruolo, anzi
molti di essi vorrebbero restarci a vita. E anche se non hanno ottenuto il
terzo mandato, provano con ogni mezzo a condizionare chi gli succederà.