La mia America (che non c’è più...)

La mia America (che non c’è più...)

In altre epoche della mia vita sono stato più volte negli Stati Uniti. Era l’America di Bush junior, era l’America di Obama. Accompagnato dalla mia passione per la letteratura americana, dalla mia conoscenza di film e colonne sonore, dai miei studi quotidiani su testi e riviste scientifici americani, dalla mia frequentazione da autodidatta della lingua inglese e della cultura anglosassone.

Per motivi connessi al mio lavoro buona parte delle giornate erano occupate, ma facevo di tutto per ritagliare scampoli di tempo e percorrere le strade dei luoghi in cui di volta in volta atterravo dopo la traversata atlantica. E afferrare qualcosa di un paese reso apparentemente familiare da telegiornali, cinema, musica. Nella realtà assai diverso da quello rappresentato dalla narrazione post bellica e dai miti della controcultura così familiari alla mia generazione.

Innumerevoli le immagini che si sono impresse nella mia memoria. Ma quelle più significative non rimandano alle cartoline ai più note, Central Park, la Fith Avenue, il Golden Gate, Cape Canaveral, gli austeri edifici di Harvard, tempio della cultura universitaria degli States, le strade fiancheggiate da altissimi edifici, paragonabili a profondi canyon urbani, le sconfinate distese e le grandi catene montuose che ho scrutato dall’alto, sorvolando il Nord America da Nord a Sud, da Est a Ovest e viceversa. No, nella mia memoria si sono fissati altri frammenti.

Una sera a Philadelphia, la temperatura di parecchi gradi sotto lo zero e i marciapiedi coperti di neve e ghiaccio, una sorta di fantasma che si materializza all’angolo della strada, un uomo di colore con un paio di pantaloni di tela lacera, una camicia, dei sandali. Un’ombra, un invisibile. E altri ne avrei incontrati. Una mattina a San Francisco, un homeless disteso davanti all’ingresso di un grande store, scavalcato con noncuranza dai passanti. E alla sera decine di giovani che allestivano i loro ricoveri notturni, qualche cartone, una coperta, sotto le luci sfavillanti di Macy’ e di un grande albero di Natale. Le parole scambiate a New York con una donna italo americana, ottantadue anni ben portati. Mi raccontò che con la pensione non arrivava alla fine del mese, era costretta a lavorare accompagnando gruppi di italiani, nei trasferimenti tra aeroporto e città, per potere pagare affitto e bollette.

Un pomeriggio a Boston, ho dimenticato il badge al collo uscendo dalla sede congressuale, una macchina della polizia mi affianca, ne scende un agente che mi chiede conto: che cos’è, chi sono, che faccio. Un volontario che mi affianca in una stazione della metropolitana offrendomi il suo aiuto mentre acquisto un biglietto. Una macchina che mi affianca in una strada di periferia di Philadelphia, il conducente che mi chiede dove sono diretto e che si offre di accompagnarmi. Decine di auto che si fermano ad un incrocio demenziale di San Francisco e mi lasciano attraversare con la mia bicicletta.

L’America dei sobborghi metropolitani che scorre davanti ai miei occhi dai finestrini di un treno Amtrack, in una giornata festiva, fatta di migliaia di abitazioni con bandiera a stelle e strisce nel giardino. Una enorme bandiera nazionale, alta dieci piani, in un edificio di Orlando, tre mesi dopo la strage delle Torri Gemelle.

Gli States sono un luogo indubbiamente affascinante, che esercitano un’attrazione magnetica. E sono un luogo fortemente contraddittorio, di formale cortesia anglosassone e protestante e di durezza, di grandi opportunità di successo e di indifferenza davanti alla povertà di decine e decine di milioni di cittadini, di impressionanti conquiste scientifiche e tecnologiche e di una assistenza sanitaria minimale, spesso insufficiente per chi non è garantito e non può permettersi un’assicurazione. Di élite culturali e progressiste metropolitane e della massa di cittadini che abitano l’immensa pancia degli stati agricoli, l’America profonda distante anni luce dalla vita delle metropoli. Di confessioni religiose le più disparate, di divisioni ormai laceranti, di orgoglio patrio, di abissale ignoranza delle cose del resto del mondo. Di minoranze numerose a cui forse non importa più della democrazia e che sperano solo di essere parte dell’America great again.

È l’America affascinata da Donald Trump, dalle sue iperboli, dalla sua rozzezza, dalla sua violenza verbale, dalla sua xenofobia, dal negazionismo climatico, dalla sua promessa di America First. E noi europei ce ne facciamo meraviglia. Soprattutto quella sinistra ormai cronicamente sconnessa dalla realtà, incapace di comprendere i comuni denominatori delle vicende americane ed europee. Ovvero la paura, le paure. Della perdita del benessere, della perdita di status, dei migranti. Ovvero l’indifferenza, quasi rancorosa, verso il bene comune, verso i diritti, direi verso la civiltà. Mentre russi, cinesi, indiani, africani, sudamericani ci disprezzano sempre di più, noi stiamo rinunciando a duemila anni di progressi del pensiero e stiamo correndo verso il cupio dissolvi. Guidati da Trump e dalla compagnia di populisti e sovranisti di cui l’Europa si va affollando, capaci di intercettare bisogni basici e di parlare dritto ai sentimenti eludendo la ragione.

Eppure gli States continuano a suscitare il mio interesse e le loro vicende mi attraggono. Una fascinazione che affonda le sue radici nella mia infanzia di boomer. La curiosità, l’attrazione di un vecchio europeo figlio del novecento, alle prese con un mondo divenuto instabile e ostile. Da decenni ho alle spalle del mio tavolo da lavoro una grande foto di JFK immortalato nello studio ovale della Casa Bianca, intento a studiare documenti, mentre il piccolo John John si affaccia da un’apertura del mobile. Ma quella era un’altra America, quella del discorso di Berlino e della conquista delle stelle. E non c’è più.

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