LONGFORM. Le lezioni stravaganti di Giuseppe Tripodi

LONGFORM. Le lezioni stravaganti di Giuseppe Tripodi

LE LEZIONI STRAVAGANTI DI GIUSEPPE TRIPODI

La stravaganza non è un fatto negativo. Vengono in mente le “Pagine stravaganti” del grande filologo Giorgio Pasquali che, all’insegna dell’autoironia, esibisce interessi eterogenei, eppure sempre in qualche modo connessi col suo magistero di filologo e linguista. L’analogia è forte: il Pasquali negli anni del ventennio mussoliniano fu socialista e antifascista, eppure molto amico di Gentile e di Croce. La sua passione per l’insegnamento gli ispirava una condanna morale della demagogia tribunizia e dell’incoerenza. 

L’ultimo libro di Giuseppe Tripodi, Il ciarlatano e la bella. Un amore stravagante nella Svizzera della Grande Guerra (1917-1919), che dobbiamo al raffinato editing di Oreste Kessel Pace (2024), ha sorpreso molti e suscitato reazioni indignate per le rivelazioni inaudite che contiene. Si tratta di Bruno Misefari (1892-1936), l’anarchico di Calabria passato per campione europeo di questa utopia meravigliosa, giovane idealista che dal paesino aspromontano di Palizzi si avventura nel mondo, distribuisce volantini antimilitaristi, fa comizi contro l’imperialismo bellicista, diserta quando è chiamato alla leva, è indagato e condannato al carcere e al confino.

Il libro, che è stato preceduto da un altro sullo stesso tema (L’invenzione del ribelle, Reggio Calabria, Città del Sole 2020), è una biografia fondata su documenti d’archivio da cui si evince una “vita tortuosa”, ben diversa dall’immagine esibita nella autobiografia Diario di un disertore, scritta a Zurigo nel 1918 con lo pseudonimo anagrammatico di Furio Sbarnemi e poi ripubblicata col sottotitolo in copertina “Dal Carcere di Zurigo (1918) Bruno Misefari l'anarchico di Calabria contro tutte le guerre”. L’invenzione del ribelle smentisce la leggenda aurea dell’eroe senza macchia e senza paura costruita da parenti falsari nonché da reticenti compagni di fede, come appare specialmente nelle Appendici.

Ma chi era veramente Bruno Misefari? Il mito del sovversivo anarchico, antimilitarista e disertore della Grande Guerra, sorvegliato e diffidato dalle autorità, si crea nella Svizzera, la terra della neutralità, patria dei movimenti anarchici; appare poi codificato nelle biografie scritte dalla moglie Pia Zanolli (L’anarchico di Calabria, Milano 1967) e dal fratello Enzo Misefari (Bruno biografia di un fratello, Milano 1989). Misefari è passato così alla storia come l’eroico anarchico calabrese; il 21 giugno 1953 sul n. 24 di “Umanità Nova” uscì, a cura di Arturo Silvani, un articolo di commemorazione della figura del giovane antesignano e precursore dell’anarchismo in Calabria. Nel 1966-7, all’interno della FAI, si costituì il gruppo «Bruno Misefari»; a Reggio, nel dopoguerra nasceva il Circolo “Bruno Misefari”.

L’anarchia è un’idea utopica che mi ha sempre affascinato in gioventù e ancora mi suggestiona e mi preoccupa. Attecchisce nei puri che sognano un mondo di libertà e di uguaglianza, un paradiso senza padroni e senza servi, dove ognuno dà quello che può e prende tutto il necessario. La storia insegna che da questi nobili sentimenti nascono le rivoluzioni che poi, nella fase attuativa, si mutano inesorabilmente in autocrazie severe. La più nota è il comunismo; per realizzarlo si impose la necessità della dittatura del proletariato con le sue conseguenze. Anche la generalizzazione della “fraternité” del razionalismo illuminista, coniugata unitamente alla “liberté” e alla “egalité”, pose l’inderogabile necessità della ghigliottina e sfociò, come sappiamo, nell’autocrazia. Sennonché anche lo stesso ideale anarchico della distruzione dello Stato si concretizza nella violenza, nel regicidio e negli attentati. Persino la “fratellanza universale” delle logge massoniche necessita del gran maestro. Non ignoro le idee di illustri filosofi che rubricano tutte queste ideologie come eresie cristiane, interpretazioni originali della rivelazione apparsa or sono due millenni nel vicino oriente allorquando un giovane ebreo pronunziò il famoso sermone della montagna presso il lago di Tiberiade. L’homo homini lupus poteva convertirsi in fratello, in una società di uguali senza ricchi né poveri, senza padroni né schiavi, senza proprietà privata, giacchè la terra è proprietà di Dio e l’uomo ne è il gestore. Una convivenza fondata sulla carità, che porta a considerare l’altro superiore a sé. Anarchia significa dunque dovere della disobbedienza civile per l’abbattimento di ogni struttura (statale, economica, finanziaria, politica, religiosa) e trionfo della bontà e della libertà individuale.

Ma chi penserà a governare questo paradiso in terra? I filosofi? i poeti? Perché bisogna anche mangiare per sopravvivere. Ogni volta, accanto ai puri e ai sognatori, si presentano pure i ciarlatani. E gli stessi operatori della politica si rivelano a volte attenti al particulare (con la politica si guadagna bene, senza bisogno di lavorare). La scoperta di una seconda vita di Bruno produce in Tripodi una grave delusione. Un sofferto risentimento lo induce a rivelare, decenni dopo, la vera personalità del Misefari. Ecco che nel 1926 troviamo Bruno Direttore tecnico della la Società vetraria Calabrese, fondata in accordo col Presidente l’ing. Giuseppe Zagarella, industriale e gerarca fascista di Villa S. Giovanni con l’appoggio di altri industriali come Nicola Siles. L’impresa necessita di finanziamenti e allora Bruno e Pia millantano la conversione al Fascismo e l’abiura dalle idee anarcoidi. Il Misefari rastrella finanziamenti ma non li sa gestire. Resta comunque segnalato nel Casellario politico. Confinato a Ponza nel 1931, se la cava convincendo le autorità locali a favorirlo con l’incarico di dirigere il progetto della scuola elementare, la sistemazione della pavimentazione delle strade più praticate e la completa verifica della rete elettrica. Fa amicizia con un confinato speciale, il Gran Maestro della Massoneria di Palazzo Giustiniani, e si fa affiliare. Nel 1930 acquisisce una cava di caolino a Davoli, in provincia di Catanzaro, dove trasferisce la residenza nel 1934. Ma anche qui quella dell’imprenditore è una sfortunata avventura; gli indecorosi rapporti con le gerarchie fasciste non bastano a salvarlo.

Tripodi ebbe modo di frequentare a Roma Pia Zanolli, la bella fanciulla svizzera, divenuta calabrese e poi romana, di cui Bruno si innamorò (sinceramente o per calcolo?), una figura interessante, come appare dalle lettere d’amore di Bruno; apprendiamo della vita ineccepibile di una famiglia di anarchici svizzeri in cui il disertore trovò sicura àncora di salvezza, di altri protagonisti dell’avventura socialista fra cui la scrittrice Ada Negri (che bocciò senza riserve le poesie di Bruno) e la socialista russa Angelica Balabanoff, le cui lettere inedite a Pia Zanolli (1948-1956) sono pubblicate sul n. 99 dei Quaderni di storia diretti da Luciano Canfora (pp. 379-403).

Giuseppe Tripodi, nato a Condofuri (RC) nel 1949, laureato in lettere all’Università di Messina nel 1971, emigra dalla Calabria in cerca di un ubi consistam, finisce a Tivoli dove insegna Storia e filosofia nelle scuole medie Superiori (1974-2006) e si laurea in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma (1982-1986). Tripodi era già nei miei interessi da tempo per la sua scrittura audace, ironica e improntata alla calabritudine, eppure la conoscenza fu tardiva, dopo le sue postille al mio saggio sull’etimologia di Ndrànghita e dopo che ebbi la fortuna di assaggiare i suoi fichi di prima mano (prodotto calabrese innestato a Tivoli). Scoprii le nostre vite “parallele”, nate nel mondo contadino in due paesi della Calabria estrema, con gli ultimi sprazzi di feudalesimo. Siamo coetanei, analogo il percorso di vita: infanzia al paese, famiglia di lavoratori “veri” (coltivatori diretti), poi l’emigrazione intellettuale, il Sessantotto, l’insegnamento come missione civile. Comuni gli studi classici e l’utopismo sociale e politico, ancorché i percorsi ideologici siano divergenti: lui cresciuto nell’alveo del comunismo, io del cattolicesimo “borghese”. Entrambi ci siamo rammaricati per la deriva dell’attuale società liquida (caratterizzata da individualismo, corruzione, ignoranza).

Nei libri di Tripodi (vedi anche Straci, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007; Il Meteco e il Redivivo, Roma, Sensibili alle foglie, 2015; Catalogo della casa di Gianni, Roma, Il Seme Bianco, 2019) trovo sempre qualcosa da imparare, come pure nei tanti saggi usciti in qualificate riviste (Quaderni Cistercensi, Belfagor, Quaderni di storia, Calabria letteraria ecc.). Non poteva mancare l’interesse per lo scrittore Giuseppe Occhiato, anch’esso calabrese emigrato, in cerca di una sistemazione non solo economica, ma altresì psicologica, politica, culturale. Il suo romanzo Oga Magoga è una epopea del mondo contadino.

Una rivelazione è il romanzo Cola Ierofani (Reggio Calabria, Città del Sole, 2014), ampiamente autobiografico: si legge con godimento ed empatia. Io di mestiere faccio il linguista, sono convinto che la lingua è una Weltanschauung, rivela e formalizza l’identità dei singoli e dei popoli. Non sono “tuttologo”, eppure la sua produzione mi interessa per diversi aspetti. Visto che la politica attiva non era per me, ho optato per il “riflusso” nello studio e nella riflessione. Condivido il raccapriccio per il degrado della vita politica attuale che seleziona i peggiori, ma sento quasi invidia per chi sceglie la lotta. Tripodi mi interessò per la molteplicità degli interessi: propensione per il dialetto, la pasoliniana “lingua del cuore”, la lingua con cui pensiamo.

Apprezzo l’impegno filologico, la curiosità etimologica, l’ironia beffarda che a volte diventa sarcasmo. E su questo punto abbiamo avuto da discutere. Sulla scia di Isidoro di Siviglia (omnis rei inspectio etymologia cognita planior est), Tripodi è portato alla narrazione, all’affabulazione. Basta una parola dialettale a suscitare nella narrativa di Tripodi un approfondimento che rende piacevole e proficua la lettura. Penso al termine cordovana: vi trovo coniugati armonicamente il fascino narrativo, la novità storica e anche la serietà filologica. Io, legato alle consegne della metodologia scientifica della scuola di glottologia di Roma, sono più pignolo e arido: i miei lavori non si leggono con piacere.

Al di là di queste differenze di stile ho intuito un gemellaggio di percorsi di vita. Nella scuola di Tripodi c’era ancora il professore e lo scolaro che dialogavano. La sapienza era trasmessa non in modo epidittico, ma nel corso di amabili conversazioni. Ne nascevano “lezioni stravaganti” di varia umanità dove l’ironia diventava affascinante maieutica socratica. Tripodi mostra interessi storici e filologici e li esprime anche nella narrativa filosofica e storiografica con uno stile “stravagante”, sulla linea del maestro, il filosofo tiburtino Sandro Borgia (1921-2011), le cui Lezioni stravaganti di filosofia sono uscite nel 2022. E così anche il dato linguistico entra nella narrativa, l’etimologia si fa storia dacché ogni parola è un microracconto, la seduzione di una parola greca riassume un sistema filosofico.

Nel dicembre del 2017 ero a Tivoli con Otello Profazio alla presentazione di un altro libro: Ritratti in piedi nel Novecento calabrese (Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2017). Il ritratto di Otello Profazio è il saggio più completo che conosca su questo cantastorie calabrese. Profazio non è un semplice mastru cantaturi, è la questione meridionale che s’incarna nella voce di un combattente sui generis, se vogliamo: uno storico sui generis. Profazio è il SUD come categoria esistenziale (“più sud che c’è”). Oggi politici del nord scendono al Sud decisi a risolvere la questione meridionale. La risposta è Profazio: “non preoccupatevi, non urge… qui si campa d’aria”. Temi cari a Tripodi sono l’epopea dei poveri cafoni, dei braccianti, l’eros rusticano (u pilu), che oggi fa arricciare il naso ai radical chic. Ma perché Profazio a Tivoli, che Sud non è (anche se non è proprio Nord…)? Profazio è poeta universale, anche se canta la Calabria nella sua lingua materna, il dialetto. Dire che Profazio non è godibile a Tivoli è come dire che Pirandello è scrittore siciliano non fruibile in Giappone… eppure i problemi dell’uomo sono universali.

Il secondo ritratto è Saverio Strati, scrittore di romanzi. Ricordo che lessi E’ il nostro turno nell’epoca della contestazione e mi ritrovai nei panni dello studente fuori sede che si arrangia (un paio di calzoni per tutto l’anno, impacciato con le ragazze), accanto a colleghi rivoluzionari ma eleganti, che vestono firmato (allora l’eskimo verde faceva tanto “proletariato”). Tripodi rivela in Strati l’acuto conoscitore del fenomeno mafioso, ancor non del tutto compreso dai mass media. Stigmatizza la mala pianta della ndranghetologia (oggi si assimila la ndrànghita alla ferocia animalesca dei Corleonesi, ma è cosa ben diversa…). L’equivoco è antico, risale a Lombroso. Anche il triste immeritato destino di Strati, esule in Toscana tra le ristrettezze economiche, è colto da Tripodi nel suo significato storico e paradigmatico.

Il terzo ritratto, Rosario Villari, un altro saggio magistrale, è il profilo di uno storico. Villari è figura più austera, non per niente era un affermato accademico, nato a Bagnara, a pochi km dal mio paese, ma non lo sapevo finché a Roma non incontrai da studente il fratello Lucio, recentemente scomparso. Tripodi non resiste alla vocazione per la precisione storiografica e per l’aneddotica (che risulta sempre illuminante). Il saggio è un debito verso il professore e un omaggio al compagno. Prova di profonda cultura, ma per me un po’ meno attraente.

Ma torniamo a Misefari. Oggi l’anarchia non è di moda, è guardata con sospetto. Perché? Proprio perché è una cosa seria e nella quotidianità vanno di più i vari terrorismi destituiti di ideologia e promossi da ignoranza e psicosi varie. Misefari ci viene descritto qui come un ciarlatano, che non disdegna di accordarsi con i gestori del potere; ha bisogno di soldi, di una agognata laurea in ingegneria che stenta ad arrivare, di un amore che consoli la sua solitudine esistenziale.

Personalmente sarei più indulgente. Dopotutto le ciarlatanerie di Bruno sono bruscolini a confronto con le ciarlatanerie di tanti ideologi contemporanei (penso a Komenei, Netanyahu, Putin, Trump, con rispetto parlando), che fondano su irreprensibili fedi religiose la loro sete di potere e la loro fortuna politica.

Sospetto che il severo giudizio di Tripodi, inattaccabile sul piano storiografico perché fondato su inediti documenti, nasca dallo scandalo per il tradimento degli ideali politici professati dal giovane anarchico. La condanna morale è senza dubbio corretta e fondata, ma non possiamo ignorare la fenomenologia che genera queste incoerenze. Misefari è un calabrese autentico, attratto dalla poesia, dalla riflessione filosofica e dall’istinto rivoluzionario, fino a quando ciò non confligge con i propri bisogni di sopravvivenza, perché anche il rivoluzionario deve mangiare. Allora è possibile il contatto con gerarchi e imprenditori fascisti. A cu mi duna pani u chiamu patri. Tutto sommato Bruno è definibile etimologicamente come un impostore (= uno che tende ad imporre il suo pensiero), un imbecille (= privo di potere perché disarmato, privo di manganello, latino bacillum, baculum).

Mi è capitato di scoprire un altro illuminante esempio di birbante calabrese che si fece strada nel tempo delle lotte risorgimentali: Francesco Romeo, nato a Melicuccà e morto a Londra, anche lui poeta, politicante, ingegnere scopritore di giacimenti di minerali in Calabria, pronto a cambiare casacca alla prima occasione favorevole (vedi Un birbante nella storia del Risorgimento, in «Quaderni Calabresi» 115, 2013, pp. 50-56).

Nel dopoguerra, mentre si prepara l’avvento del fascismo, Bruno è sempre in giro a fare attività sindacale. Difende Sacco e Vanzetti condannati innocenti alla sedia elettrica nel 1927 dall’America capitalista, si esprime nella pubblicistica sovversiva. Nello stesso tempo ha in mente la “maledetta” laurea in ingegneria e l’amore per Pia che lo porta a sognare un nido familiare, cerca di esprimersi con la narrativa e la poesia. Ma le sue prove riscuotono la severa stroncatura di Ada Negri.
 
In ogni argomento trattato da Tripodi (storiografico, linguistico, politico, letterario) s’insinua sempre un taglio autobiografico (“Minima personalia”). L’autobiografia, genere nobile (spesso sottovalutato), è qui elevato a dignità letteraria. Autobiografia sì, ma autobiografia “corale”, scorci di una terra grande e amara. Tripodi ragazzo fu spettatore e protagonista dell’anabasi contadina, quella narrata da Leonida Rèpaci. Rievocando l’infanzia nel quadro dell’epopea contadina, della grande famiglia patriarcale (con le sue nobiltà e miserie), il racconto si fa più efficace di un trattato, un affresco di valore storico. E anche qui la chiave è l’ironia, l’autoironia.

Paradigmatiche sono le peregrinazioni del calabrese. Anche Tripodi lascia Condofuri per il Nord, la Sardegna ecc., fino all’approdo a Tivoli. Di lui mi colpiscono la docenza vissuta come una missione sincera e appassionata, l’apertura amicale a chi milita su sponde opposte (ma ha una sua umanità), il cruccio per la deriva della vita politica e delle istituzioni, fra cui la scuola, oggi ridotta ad azienda (la cui mission è il profitto). E non parliamo dell’Università. Entrando nell’ultima fase della vita si fa più bruciante la delusione per la caduta dei valori umani nella società attuale.

In definitiva, la narrazione di Tripodi è eterogenea e compatta, fatta di tasselli diversi eppure collegati da filoni comuni: il SUD come paradigma, il sud come metafora. Ovunque c’è un Sud, anche a Tivoli. E qui vale la pena citare la Relatione della Provincia di Calabria e dello stato in essa così nel temporale come nello spirituale (conservata nel manoscritto Barberino latino 5392), scritta nel 1654 da un visitatore del Nord, un affresco del mondo contadino della Calabria applicabile dappertutto:

«Sono i Calabresi di natura feroce, di costumi rozzi. Tollerano pazientemente le fatiche, e sono parchi nel vitto. I più fanno stima dell'honore. Hanno gran genio all'armi, e per la vivacità dell'ingegno sono capaci di ogni buon arte, se loro vi si aggiunge coltura e disciplina. La sperienza dimostra che di costoro quelli che escono dalla patria o per vedere del mondo o per attendere alle lettere o per altra occasione, con la pratica migliorano di costumi, apprendono virtù, diventano manierosi e gentili, adattandosi con molta grazia alla vita civile, et in qualunque altra professione si impieghino, riescono in essa qualificati e singulari. Così danno a divedere che agli ingegni calabresi per coltivargli è necessario o mutazione di cielo o ammaestramento straniero, perché così si raffinano le doti naturali, che in loro sono egregie, ma rozze e incolte. Hanno avuti soggetti rari in ogni arte di scienze, e di presente ci sono spiriti elevati e l'inclinazione alla virtù non manca, ma la povertà comune dei popoli, cagionata dalla infelicità del governo, seppellisce nell'ozio miserabile della patria più d'uno, il quale sarebbe atto a sollevarsi con avanzamento di fortuna e di gloria» (Per questa interessante relazione, fatta conoscere nel 1942 da S.G. Mercati nell’«Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», cf. G. Pistoia, Alle radici del presente. Calabria. Vita morale e materiale in un manoscritto del Seicento, ed. Il Serratore, Corigliano Calabro 1996, 20132).

Giuseppe Tripodi è uno scrittore a tutto tondo, ha fatto una scelta di campo lineare e coerente che non può non essere condivisa da chi coltiva il sogno di un mondo più pulito. I suoi libri rivelano sempre cose nuove, al riparo dalle pretese di tanti scrittori che, nella nuova era digitale, pubblicano un libro alla settimana e lo esibiscono come fiore all’occhiello, mettendo in circolazione rimasticamenti inutili e fake news favolose.