L’INTERVENTO. 'Ndrangheta: il pentito, il testimone, la convenienza

L’INTERVENTO. 'Ndrangheta: il pentito, il testimone, la convenienza
test Mi sono persuaso, anche se certamente sto commettendo un errore, che il cittadino che denuncia, che racconta dei fatti di cui è a conoscenza, che ci mette la faccia, pur non essendo parte di alcuna consorteria criminale, ma semplicemente è figlio di questa terra, viene visto come un elemento fastidioso. Non già e non solo, dagli stessi uomini organici alla ‘ndrangheta. Al di là della “retorica ufficiale”, infatti, che esorta i cittadini a collaborare con le Istituzioni, la “testimonianza” viene vissuta assai negativamente. E’ inutile dire dell’ovvio odio profondo che il malfattore nutre nei confronti delle propria vittima che ha avuto l’impudenza di denunciarlo. Risulta assai utile, invece, raccontare del fastidio, appunto, che pare trasparire dai ragionamenti e dai modi di porsi di alcune Istituzioni nel confronto con chi ha avuto, a questo proposito non trovo altri termini, “l’incoscienza” di denunciare.

Innanzi tutto, conviene cercare di spiegare, seppur sommariamente e senza alcuna pretesa di natura tecnico-giuridica, la differenza che intercorre tra un “collaboratore di giustizia” (quello che sui giornali e nel linguaggio comune viene chiamato “pentito”) ed un “testimone di giustizia”. Il primo, facendo riferimento a chi si è macchiato di delitti di natura mafiosa, è un tizio che in un modo o nell’altro, ha vissuto dal di dentro l’organizzazione criminale a cui apparteneva. Il secondo, invece, è un normale cittadino che, magari stanco delle vessazioni subite, decide di osare puntando il dito contro che si è reso responsabile di tali angherie. Non vi è alcuna certezza che in entrambe le casistiche la decisione di “collaborare” non sia scaturita da un profondo travaglio interiore. Così come non vi è alcuna certezza che la determinazione di avvicinarsi non sia dovuta a un mero e squallido calcolo delle opportunità. Ovvero dalla consapevolezza e dalla convinzione di essere giunti ad un punto in cui non si hanno altre alternative.

Ciò detto, tuttavia, pare di poter dire che vi siano delle sostanziali differenze tra le due fattispecie che forse varrebbe la pena prendere in considerazione. Il Collaboratore di giustizia, ad esempio, ha una storia, ovvero un vissuto precedente che diviene parte determinante e fondamentale del suo nuovo status di collaborante. Così come gli viene data la possibilità di un futuro. Specie se il suo pentimento è sincero, al netto del rischio di essere scovato ed eliminato dai suoi stessi ex sodali, il futuro che lo attende non potrà che essere migliore rispetto al proprio passato. Il Testimone, di contro, nel momento in cui assume tale “non valenza” diventa un individuo senza passato. Ogni azione o vicenda precedente, se non strettamente connessa agli elementi certi e dimostrabili di cui è a conoscenza, diventa di poco o di nullo interesse. Pertanto, egli certamente perderà la stima, l’amicizia, la considerazione dei molti che lo hanno precedentemente conosciuto. Il passato verrà cancellato, irrimediabilmente perduto. Ma ciò che più di ogni altro verrà smarrito, almeno nella maggioranza dei casi, sarà il futuro. Al netto delle eccezioni, infatti, anche tra i testimoni di giustizia vi sono quelli che con un abile politica di marketing di se stessi e complice una voluta miopia Istituzionale sono riusciti a migliorare e di molto la loro condizione di vita.

Per i più, tuttavia, il cammino intrapreso si rivelerà un calvario di abnormi proporzioni. Senza che nei loro riguardi venga posto in esser alcun riconoscimento per il servizio reso. Piccolo o grande che sia stato, il servizio, non servirà a dar loro nessuno sconto di penna per delitti, per altro, di cui non si sono mai macchiati, come accade con i collaboratori. Ma soprattutto, ed è questa la cosa più importante, non verrà dato loro alcun incentivo “morale” che li agevoli nel ricominciare a vivere. Ma tale incentivo, che non dovrà essere quello di elargire danari, non potrà mai essere riconosciuto ad un individuo che è “vittima resistente”, se volutamente non si vuole riconoscere il suo vissuto passato. Non basta la prescrizione di un reato, la lontananza del tempo in cui esso è avvenuto, per cancellarne gli effetti. Quelli giuridici forse sì, ma le sofferenze, i drammi, i dolori, le lacrime, quelle come è possibile cancellarle?

Eppure, le vicende che di solito interessano un cosiddetto testimone di giustizia non sono quasi mai personali, come erroneamente si è portati a pensare. Egli, infatti, solitamente è una vittima tra le tante della stessa mano sopraffattrice. Egli è una parte di un tutto molto più vasto, di una società misera, sventurata e silente, all’interno della quale al testimone deve essere riconosciuta la sola valenza di esserne diventato, senza delega alcuna, il portavoce.

Alla luce di quanto detto sin qua, ci si permette di esprimere una valutazione del tutto personale ed in quanto tale priva di ogni valore. Parlare, cercare di essere d’aiuto o, meglio ancora, cercare di liberarsi dall’oppressione mafiosa non è affatto conveniente. Ciò che risulta assolutamente consono al vivere presso i nostri territori e non solo è ricercare il compromesso. Non è peccato e forse non è nemmeno reato!